Scongiurare che la più grande foresta tropicale del mondo, già degradata pesantemente, si trasformi presto in una savana: su questo obiettivo, al Vertice dell’Amazzonia che si è aperto ieri a Belém, c’è pieno consenso tra i rappresentanti degli otto paesi aderenti all’Otca, l’Organizzazione del trattato di cooperazione amazzonica (Bolivia, Brasile, Colombia, Ecuador, Guyana, Perù, Suriname e Venezuela). E ci mancherebbe.

Su come evitarlo, però, le idee sono tutt’altro che chiare: dalla meta della deforestazione zero entro il 2030 allo stop all’espansione della frontiera petrolifera all’interno della regione amazzonica, le divergenze tra i partecipanti non sono di poco conto. Tant’è che, in mancanza di consenso, sembra certo che il documento finale del vertice eviterà qualsiasi riferimento alla questione dei combustibili fossili.

Non solo dunque non ci sarà alcuna moratoria su nuovi contratti di estrazione di petrolio e di gas, ma, al contrario, bisognerà attendersi addirittura un loro incremento, come del resto sta avvenendo un po’ in tutta l’Amazzonia con l’unica eccezione della Colombia. Merito, questo, del presidente Petro, il quale, malgrado le pressioni da parte non solo dell’opposizione ma anche di settori del suo stesso governo, ha finora mantenuto la promessa di non aprire nuovi fronti di sfruttamento dei combustibili fossili, puntando invece a superare la dipendenza dal petrolio e ad avviare una «transizione energetica socialmente giusta».

Che le aspettative, malgrado tutto, siano alte, Lula lo ha espresso con convinzione nel suo discorso di apertura del vertice: «Era da 14 anni che non ci riunivamo», ha ricordato il presidente, evidenziando come, di fronte alla sempre più allarmante crisi climatica, non sia apparso «mai così urgente riprendere e ampliare questa cooperazione: le sfide della nostra epoca e le opportunità che ne derivano richiedono un’azione congiunta».

ùIn questo quadro, ha proseguito, sono tre gli obiettivi del vertice: la promozione di una nuova visione di «sviluppo sostenibile e inclusivo», combinando la protezione ambientale con la creazione di posti di lavoro dignitosi e la difesa dei diritti di chi vive in Amazzonia; il rafforzamento istituzionale dell’Otca; e un maggiore protagonismo dei paesi che ospitano foreste tropicali all’interno dell’agenda globale, riguardo a temi che vanno dal contrasto ai cambiamenti climatici fino alla riforma del sistema finanziario internazionale.

Che l’Amazzonia debba essere trasformata non in un santuario ma in «uno spazio per la generazione di ricchezza per il popolo», Lula lo ha sostenuto da sempre ed è tornato a ribadirlo a Belém, sottolineando come «lì abitino milioni di persone che vogliono vivere bene, lavorare, mangiare». Il rischio, tuttavia, è che il «vivere bene» di Lula non coincida affatto con il “bom viver/ buen vivir” dei popoli indigeni, ai quali, ha spiegato l’antropologa indigena Braulina Baniwa, non serve più denaro, ma «pesci sani, fiumi sani, territorio demarcato»: «È la nostra relazione con i nostri spazi che deve essere assicurata».

Dopotutto, come evidenzia la scrittrice e documentarista Eliane Brum, «Lula coltiva ancora la certezza che essere un buon presidente significhi garantire una macchina in garage e un churrasco e una birra sul tavolo di tutti». Ed è per questo che, malgrado il suo discorso forte in difesa della foresta, il suo governo non solo ha isolato la ministra dell’Ambiente Marina Silva sul tema dello sfruttamento del petrolio nella foce del Rio delle Amazzoni, ma ha anche reagito debolmente alle amputazioni inferte al suo ministero.