Quanto alla promessa di una «verità non di comodo» sulla tragica morte del giovane ricercatore Giulio Regeni, che tutti aspettano e che è stata avanzata anche dal governo italiano, non c’è che dire: davvero imbarazzante l’intervista di ieri su la Repubblica al presidente-dittatore egiziano Al Sisi. Senza nessuna domanda sul lavoro d’indagine di Giulio Regeni – quello sui nuovi sindacati – né naturalmente sul clima di repressione in atto in Egitto dal golpe militare da lui guidato nel luglio-agosto 2013.

Con 41mila arresti, denuncia Amnesty International, anche di leader della rivolta di Piazza Tahrir, per non dire delle condanne a morte dei leader dei Fratelli musulmani deposti (e ormai equiparati all’Isis), centinaia e centinaia di desaparecidos, centinaia di casi di tortura, 88 solo dall’inizio dell’anno. Emerge invece la figura di un buon «padre di famiglia», così si autodefinisce il generale golpista Al Sisi, intento a perseguire giustizia e verità e, naturalmente, a «combattere il terrorismo», affermazione che autorizza ogni nefandezza emergenziale.

Tant’è, Matteo Renzi è stato il primo leader occidentale a incontrare il capo di governo egiziano a un anno dal golpe e a indicarlo come la «nuova figura emergente» del Medio Oriente. Mentre sullo sfondo la procura egiziana – nel tragitto che dovrebbe rassicuraci, tra Il Cairo e Roma – avverte che «tutte le piste sono all’ordine del giorno», ecco che il «padre di famiglia» Al Sisi si arrovella, con lo sguardo perso nel vuoto – così racconta l’intervistatore, il direttore Mario Calabresi – a chiedersi chi abbia avuto interesse con l’uccisione di Regeni a mettere zizzania tra Egitto ed Italia primo partner commerciale e fortunato agente petrolifero.

Torna dunque in queste ore, ancora una volta, tutto l’armamentario dei depistaggi che il regime militare egiziano ha utilizzato per nascondere la verità sul caso Giulio Regeni.

A cosa possa servire questo accredito ulteriore di Al Sisi – è insieme a lui che «dobbiamo cercare la verità», ha ripetuto il Presidente del Consiglio plaudendo, com’era d’aspettarsi, al generale e all’intervista -, è purtroppo comprensibile.

Basta leggere i tanti, troppi riferimenti ricattatori agli interessi petroliferi italiani, alla «scomparsa» di un egiziano in Italia, e alla seconda puntata dell’intervista – non perdetela – che continua oggi manco a farlo apposta sulla questione della guerra in Libia, per la quale il regime e l’esercito egiziano sono decisivi.

Ci piace ricordare che il grande scrittore turco Orhan Pamuk ha avuto il coraggio, in solitudine, di dichiarare nell’estate del 2013 che il colpo di stato militare del generale Al Sisi era «come quello di Pinochet in Cile nel settembre 1973». Bene.

Che avremmo detto se, a tre anni dal golpe in Cile e di fronte alla scomparsa di un cittadino straniero (vi ricordate il film Missing di Costa Gavras con Jack Lemmon?) il principale giornale nordamericano, il New York Times, avesse deciso di intervistare il generale-presidente Augusto Pinochet per farsi raccontare che lui altro non era che un buon «padre di famiglia» impegnato a fare giustizia e verità?