La storia del Sudafrica è marcata da una serie di violenti scontri di piazza con la polizia diventati internazionalmente noti. Si pensi al massacro di Sharpeville del 1960, in pieno Apartheid, quando la polizia represse violentemente le manifestazioni contro il Pass Act, con i neri che si rifiutavano di dover mostrare un passaporto per muoversi all’interno delle città del loro paese. O al Soweto Uprising del 1976, in cui gli studenti, neri si erano opposti al Bantu Education Act e all’imposizione della lingua Afrikaans nelle scuole. Una protesta divenuta un simbolo per molti movimenti studenteschi nel mondo, soprattutto quando sono razzializzati. Ha continuato ad esserlo nelle manifestazioni del Rhodes e Fees Must Fall, che dal Sudafrica (non dal Regno unito) si sono diffuse in tutto il mondo anglofono contro pratiche e curricula di insegnamento colonizzatori, che continuano a essere tramandati dall’ex-Impero.

C’È POI UNA STRAGE, quella di Marikana, avvenuta esattamente dieci anni fa, che invece sembra essere tenuta volutamente nascosta. A parte le molteplici iniziative di associazioni di base, ong, gruppi sindacali, ben poche sono state le manifeVstazioni pubbliche per segnare la ricorrenza. Il governo ha preferito evitare di ricordare la vergogna, o anche solo di chiedere scusa, per quello che è da molto definito come una cartina di tornasole dello stato di degrado della governance del paese nel post apartheid.

 

Agenti in azione contro i minatori di Marikana il 16 agosto 2012 (foto Ap)

 

Il 16 agosto del 2012 la polizia sudafricana Saps apriva il fuoco su di un gruppo di minatori durante uno sciopero presso la Lonmin, una miniera di platino, a Marikana, Rustenburg, provincia nord-occidentale del Sudafrica. 34 uomini vennero ammazzati dalla polizia, in quello che resta il caso più grave di violenza contro civili della polizia sudafricana dalla fine dell’apartheid nel 1994.

IL MASSACRO DI MARIKANA ha rappresentato il tragico epilogo di una settimana di violenti scontri tra – da una parte – la polizia-Saps, la sicurezza di Lonmin, i rappresentanti dell’Unione nazionale dei lavoratori minerari (Num) e – dall’altra parte – i lavoratori in sciopero per ottenere uno stipendio degno. All’epoca, un perforatore di roccia guadagnava circa 400 euro al mese. I lavoratori ne volevano il triplo, dovendo lavorare con un trapano da 25 kg che vibra senza sosta nelle mani per otto ore a turno, a temperature di 40-45 gradi, in zone anguste, umide e poco ventilate. In caso di incidenti sono loro le prime vittime, se gli va bene perdono le dita, se no la vita. Western Deep, film di Steve McQueen del 2002, ne mostra le condizioni di lavoro. Nel frattempo Neal Froneman, amministratore di Sibanye-Stillwater, multinazionale mineraria di metalli preziosi che nel 2019 ha rilevato la miniera di Marikana, nell’anno finanziario 2021-22 ha dichiarato un pacchetto retributivo di 300 milioni di rand, poco meno di 25 milioni di euro.

L’AUMENTO RICHIESTO dai lavoratori di Marikana era ingente e l’ambigua mediazione condotta dal sindacato Num, riunito sotto il grande e potente ombrello del Cosatu, non ha facilitato la trattativa. Gli stessi leader del sindacato furono ritenuti responsabili dell’uccisione di due minatori che protestavano l’11 agosto, innescando così l’aumento della tensione sfociato nella strage. La posizione assunta dall’allora direttore non esecutivo di Lonmin e vicepresidente dell’African national congress (Anc) Cyril Ramaphosa – , attuale presidente del Paese – ha reso l’evidenza della brutale diseguaglianza del Sudafrica. Ramaphosa, infatti, invece che facilitare l’incontro con i lavoratori aveva sostenuto la necessità dell’intervento della polizia, come la Marikana Commission of Inquiry (o commissione Farlam) ha poi provato.

A DIECI ANNI DAL MASSACRO, come spesso avviene in questi casi, ancora molte sono le domande che non trovano risposta. Mentre il sindaco del comune in cui si trova la miniera, Cllr Matlakala Nondzaba, ha visitato il Marikana koppie (collina) per valutare dove costruire il sito commemorativo dei minatori morti nel 2012, le famiglie, rappresentate dal Socio Economic Right Institute (Seri) presso la Farlam, non sono soddisfatte dei risultati del report finale presentato a giugno del 2015. Se 35 famiglie hanno ottenuto un risarcimento di circa 4 milioni di euro, un gruppo di oltre 300 minatori sta ancora aspettando un risarcimento di 1 miliardo di rand, circa 60 milioni di euro.

L’esecutivo, in particolare l’allora ministro della polizia Nathi Mthetwa e Susan Shabangu, all’epoca ministro delle risorse minerarie, sono stati assolti da ogni responsabilità per le morti e, malgrado Marikana, i lavoratori della Platinum Belt nel nord-ovest continuano a essere oggetto di sfruttamento, privazioni materiali e strozzinaggio.

In questo contesto, non esiste alcuna presa in carico del trauma emozionale e materiale delle famiglie e, secondo una ricerca condotta dal Human Sciences Research Council, la consapevolezza della tragedia è relativamente bassa tra il pubblico sudafricano. Il 16% ne ha sentito parlare, il 41% mostra una conoscenza limitata, il 40% non ne sa nulla.

IL CAPO FOTOGRAFO del Mail & Guardian Paul Botes, e il giornalista freelance Niren Tolsi documentano dal 2012 le conseguenze del massacro sulle famiglie e le comunità colpite nel loro progetto di “giornalismo lento” After Marikana, the ten-year. Inizialmente hanno raccolto le testimonianze di vedove, madri, sorelle, figlie, le donne di Marikana, in The blame game: A Marikana special report pubblicato dal Mail & Guardian nel 2017. Lo scorso mese, presso il National Art Festival di Grahamstown, è stata presentata la mostra Marikana, Ten Years On: What We Lost in the Shooting, che riunisce una serie di disegni frutto dei laboratori di arte-terapia tenuti con le famiglie, foto di Botes e testi del progetto giornalistico. Il tutto incorniciato da una esposizione multimediale di prove forensi della Commissione Farlam.

NELL’ACCOGLIERE IL TRAUMA personale di questa gente si vuole sfidare «l’amnesia collettiva del passato, mentre si confronta con un presente autoritario e in decomposizione». Si tratta di un viaggio intergenerazionale che analizza come il massacro di Marikana abbia toccato non solo le vite delle vittime, prima di tutto le famiglie, ma anche la politica di un paese la cui democrazia, già di per sé labile, sembra sempre più in crisi. Un paese che negli ultimi due anni ha visto normative Covid marcate dalla corruzione dei governanti e la brutalità della polizia; l’insurrezione di luglio a seguito dell’incarcerazione dell’ex presidente Zuma; la tragedia di Life Esidimeni in cui 144 persone sono morte in strutture psichiatriche, e in cui si vive in uno stato di regolari blackout. Tutti risultati di un governo disfunzionale e una politica di violenza.

È UN INVITO A PENSARE, ad esempio, a come la mancata riforma della polizia in Sudafrica continui a portare alla morte persone innocenti durante le proteste, o a quali siano i valori di chi (non solo la persona. ma un partito imbevuto di significati storici e simbolici) governa il paese: «Se ha potuto fare questo ai nostri padri, alle nostre madri e a noi, allora cosa sta facendo al nostro paese?» si chiede la figlia di una delle vittime in un dibattito promosso dal progetto.

Descritta dai suoi curatori come «un’esperienza coinvolgente che richiede al pubblico di chiedersi cosa hanno perso loro, i loro cari e il Sudafrica post-apartheid nell’ultimo decennio», la mostra verrà ripresa in Svezia a settembre al Gothenburg Bookfair.