Il manifesto elettorale di Piero Fassino si illumina di sera, sfondo rosso e una semplice scritta: «Per amore di Torino». Il sindaco della città della Mole è ritratto in piano americano e sorridente. Il sorriso non è una caratteristica del suo carattere, la sua figura di mitologico stakanovista non prevede strappi all’ironia. In pochi erano certi della sua ricandidatura, si raccontava di desideri segreti di andare alla Fao, addirittura al Quirinale. Poi è arrivato Mattarella e il sindaco ha riscoperto un grande amore per la sua città.

A turbare i pensieri dell’ex ministro ed ultimo segretario dei Ds tre sondaggi: due ufficiali e uno ufficioso. Partiamo da quest’ultimo, visto che gira nelle stanze segrete del Pd ed è il meno ottimistico: Fassino viene dato al 28-30%, Chiara Appendino, la sfidante del Movimento 5 Stelle, sarebbe a un passo, tra il 27 e il 29%. Il segretario cittadino Fabrizio Morri nega l’esistenza del sondaggio.

Tra i rilevamenti ufficiali, quello del 2 maggio di Tecnè dà invece un vantaggio più ampio: Fassino al 39% (il 18 aprile la società gli assegnava il 41), Appendino al 31,5 e Giorgio Airaudo, candidato della sinistra, al 7,5. In caso di ballottaggio l’attuale sindaco la spunterebbe di poco 51,5% contro il 48,5 di Appendino, ma la fascia degli incerti resta ampia. Il centrodestra a ranghi sparsi è quotato quasi ai minimi termini: Osvaldo Napoli (Forza Italia) all’8,5%, meglio la Lega con il notaio Alberto Morano al 9,5. Previsioni simili anche per Index Research del 6 maggio: Fassino 39,5, Appendino 30, Airaudo 9.

Due visioni opposte

Su cosa si basa questa competizione elettorale? Una visione dicotomica. Il sindaco uscente, ultima espressione di una ventennale amministrazione di centrosinistra, rivendica la completa riuscita della trasformazione da città industriale fordista a città dei servizi e della cultura. E porta ad esempio le masse di nuovi turisti, l’apertura di musei, la riqualificazione del centro e i tanti grandi eventi. Anche uno sguardo superficiale testimonia la presenza di famiglie, scuole, gruppi da tutta Europa che passeggiano per le vie del centro tirato a lucido in occasione delle Olimpiadi invernali del 2006: fanno la coda ai musei Egizio e del Cinema e la sera ascoltano un concerto jazz in piazza Castello.

È il passaggio dalla città razionalista dai grandi viali rettilinei necessari per portare velocemente gli operai alla fabbrica alla città barocca e di corte.

A fronte di questi risultati, perché manca il plebiscito per Fassino ed è a rischio la vittoria dopo vent’anni di dominio incontrastato (Sergio Chiamparino fu rieletto con il 66% dieci anni fa)? Perché questa trasformazione ha lasciato «buchi neri» in una città impoverita e molti interrogativi sul futuro. Il sociologo Giovanni Semi descrive così Torino: «Una città alla fine di un lungo ciclo di monogoverno. Ci arriva un po’ stanca e segnata dal tipo di riforme sino a qui attuate e rivolte molto al lato visibile, pubblico, anche piacevole, del vivere urbano e meno ai bisogni di base della cittadinanza, come il lavoro e la casa».

Il «buon governo» sabaudo

L’assessore al bilancio Gianguido Passoni ha avuto nelle mani la cassa del Comune.

Figlio di uno storico partigiano, mal digerisce la scissione a sinistra di Airaudo e rivendica 5 anni di buon governo. «Torino ha subito l’impatto della crisi sulla classe media. Ma è stata in grado di risanare i conti, rientrare nel debito, cercando di accompagnare la crisi senza politiche espansive, salvaguardando i bisogni emergenti della città: la copertura dei bisogni sociali è rimasta a livelli soddisfacenti. Per tagliare il debito non sono state fatte operazioni straordinarie anzi lo stato sociale, e in particolare l’istruzione, sono stati rafforzati. I fondi derivano dal taglio della macchina comunale, diminuita di circa 2mila unità, e dalla valorizzazione del patrimonio. La scissione a sinistra è dovuta a questioni di carattere politicista e nazionale: io non ho mai votato Pd, ero a favore del referendum sulle trivelle, sono molto dubbioso sul Tav e non ho ammirazione per Renzi, ma penso che non si debba rompere la tradizione di sinistra in città. Governare con il patto di stabilità, con un’eredità pesante, non è stato facile. Ma oggi il debito è sotto controllo, il patto è stato allentato e potremo riprendere a investire. In ogni caso non posso pensare a un parte di sinistra che voti M5S al ballottaggio».

Passoni, capolista di Progetto Torino (lista sostenitrice di Fassino) spera nel ricompattamento del centrosinistra al ballottaggio.

Nuove povertà, vecchie illusioni

Giorgio Airaudo, candidato sindaco per «Torino in Comune», non si sbottona sul secondo turno e preferisce parlare della sua campagna condotta con una squadra leggera e giovane. «La città non è un risiko, dentro il cambiamento bisogna portarci tutti i cittadini. Il turismo e la cultura non coprono i posti di lavoro persi dall’industria: è una città con tassi di disoccupazione alti, che vive nuove povertà e dove la classe media si è seriamente impoverita. Il Pd si è schiacciato sulla conservazione e manca una visione».

Airaudo ha vissuto da protagonista l’ultima grande lotta operaia, quella del referendum di Mirafiori contro il ricatto di Marchionne (gennaio 2011). «Fassino al tempo si schierò con l’ad del Lingotto. E la sua amministrazione ha accompagnato il ritiro della Fiat dalla città, non ha negoziato la transizione».

Moderni olivettiani nel pubblico

Su tutti si staglia l’ombra della neo mamma Chiara Appendino, 31 anni, candidata del M5S. Oggetto di una profezia del sindaco Fassino qualche anno fa: «Venga lei a fare il sindaco e vediamo che combina», oggi punta alla vittoria al secondo turno grazie al voto delle periferie su cui ha centrato la sua campagna elettorale.

«Il centro è stato oggetto di interventi di riqualificazione notevoli, una vetrina. Ma le periferie, dove gli indicatori economici risultano drammatici, sono state trascurate. Noi vorremmo creare una Torino policentrica, dove tutti i quartieri, anche i più esterni, possano essere oggetto di sviluppo economico e sociale. Per farlo è necessaria una nuova visione della città, inclusiva, solidale, che prenda spunto da valori imprenditoriali olivettiani traslabili nel settore pubblico: è possibile. Se eletti noi porteremo trasparenza, meritocrazia, siamo gli unici che presentano la giunta prima delle elezioni. La trasparenza deve essere un valore per tutti, in primis per noi». Fassino nel tempo l’ha definita: Giovanna d’Arco, inesperta, secchiona, stravagante.

Rivedere i processi decisionali

Inesperta certo non è Eleonora Artesio, storica figura della sinistra, già assessora regionale alla Sanità e ora capolista di «Torino in Comune». Perché non basta il centrosinistra? «Le dichiarazioni secondo cui le politiche sociali sono state conservate evidenziano il rifiuto delle violente trasformazioni economiche e culturali che investono le grandi città. Non si è voluto guardare cosa cambiava, limitandosi a conservare un’offerta inadeguata per sempre più vasti strati della popolazione. Perché gli asili nido hanno meno posti e le famiglie non si rivolgono più all’offerta pubblica. Perché le politiche tariffarie sono influenti e i modelli familiari sono cambiati: di nuovo, la conservazione si è rivelata inadeguata. Il mito della governabilità se non è finalizzato alla realtà sociale è solo un valore in sé. Per superare questa condizione è necessario allargare la partecipazione della rappresentanza».

I processi decisionali sono da rivedere. «Con una visione aperta e partecipativa si devono affrontare le politiche di welfare: molti servizi che sono stati mantenute grazie a fondazioni bancarie, uno stato sociale parallelo che riesce a fare ciò che è compito dello Stato. Vorrei che il pubblico non delegasse programmazione, attuazione e responsabilità, ma riprendesse in mano le sue sorti».