Luigi Brugnaro per ora non parla dell’inchiesta che lo riguarda. Ma ne parlerà, promesso. Ieri, a Venezia, è andato in scena un infuocato consiglio comunale (proteste dentro e fuori, opposizioni che chiedono le dimissioni di tutta la giunta) e il sindaco non si è presentato, ma in compenso ha mandato una lettera per spiegare la sua posizione sull’indagine per corruzione che, martedì, ha portato all’arresto del suo assessore Renato Boraso e all’iscrizione nel registro degli indagati di 18 persone, tra cui, appunto, lui stesso. Gli investigatori, muovendosi da un esposto di oltre tremila pagina presentato nel 2021 dall’imprenditore Claudio Vanin, hanno messo il dito in una piaga piuttosto nota della laguna: la svendita a privati di pezzi di patrimonio pubblico, tra aree e palazzi di pregio, tra varianti urbanistiche bizzarre e piani regolatori fantasiosi. E giri di denaro che in procura considerano vere e proprie mazzette, come i 73.200 euro intascati per una consulenza dalla società di Boraso e di sua moglie.

«IERI (martedì, ndr) ho ricevuto un avviso di garanzia e, ovviamente, ho già dichiarato di essere e restare a disposizione della magistratura per chiarire tutte le questioni poste – scrive Brugnaro dopo aver sottolineato di fare il primo cittadino senza percepire indennità -. Proprio per rispettare questa garanzia di difesa, che vale non solo per me, ma anche per le altre persone coinvolte sarò io stesso a chiedere di inserire all’ordine del giorno la questione, in uno dei prossimi consigli comunali, per riferire sulle questioni di natura politica ed amministrativa collegate ed inerenti all’indagine». Perché non subito? La risposta: «Perché non ho alcuna intenzione di trasformare l’aula in un campo di battaglia, senza aver analizzato nei dettagli tutta la situazione, per poter poi intervenire a ragion veduta». L’avviso di garanzia ricevuto da Brugnaro, secondo il capo della procura veneziana Bruno Cherchi, sarebbe un atto «a sua tutela». Cosa di per sé tecnicamente vera per tutti gli avvisi (appunto) di garanzia. Il punto, però, è che l’indagine punta dritta al blind trust a cui il sindaco ha dato la gestione delle sue società: si tratta del primo esperimento del genere in Italia, mai prima di Brugnaro, che lo fece nel 2017, qualcuno aveva deciso di affidare a qualcun altro la gestione dei propri investimenti. In teoria la mossa serve ad evitare conflitti d’interessi, in pratica il funzionamento di una cosa simile è tutto da studiare.

IL SINDACO è coinvolto nella storia della vendita dell’area dei Pili – un ex sito di rifiuti tossici che si affaccia sul lido – al magnate di Singapore Ching Chiat Kwong. L’affare non si è mai concretizzato, ma le ombre non si sono mai dissipate del tutto. Spiega Vanin, il grande accusatore di questa vicenda: «Non sono stato estromesso dall’affare, sono io che dopo quell’incontro tra Brugnaro e il magnate Ching Chiat Kwong, ne sono uscito. Troppe cose non chiare. Da allora sono diventato la pecora nera, ho ricevuto raffiche di denunce, minacce, queste in particolare dall’intermediario di Kwong, Louis Lotti». Nell’esposto la storia dei Pili viene fatta cominciare nel 2018, quando Kwong, Lotti e il segretario del sindaco Morris Cerron si incontrano e discutono della possibile futura lottizzazione dell’area. La valutazione fatta dal Comune per la vendita è di 150 milioni, ma la commercializzazione del progetto immobiliare potrebbe valere molto di più: fino a un miliardo e 800 milioni. Poi c’è la storia di palazzo Papadopoli: vendita a 10 milioni, ma il valore è almeno di 14 milioni. Il motivo di tanto ribasso, secondo la procura, andrebbe cercato nelle manovre dell’assessore Boraso, che peraltro, nelle intercettazioni agli atti, in un’occasione, a marzo del 2023, viene anche avvisato dal sindaco: «Mi stanno domandando anche a me che tu domandi soldi, tu non ti rendi conto, tu rischi troppo, tu non mi stai ascoltando».

ANCORA IERI, in commissione antimafia, il procuratore Cherchi è stato ascoltato su altre questioni (tra cui l’eventuale creazione di una procura distrettuale a Verona) e ha avuto modo di parlare, sia pure a grandi linee, dell’inchiesta. Nessuna considerazione di merito – a parte l’ammissione che non è finita e l’esclusione del coinvolgimento delle mafie – ma un affondo che sull’annunciata riforma delle intercettazioni, che, almeno nelle intenzioni della maggioranza, non potranno durare più di un mese e mezzo. «In 45 giorni nessuno potrebbe fare indagini di questo tipo, le intercettazioni rilevanti prevedono incontri e tempi di contatto e in 45 giorni è difficile. Dubito che chiunque abbia fatto indagini di questo tipo possa credere a una cosa di questo genere», ha detto Cherchi. E a pensar male si fa peccato, ma qualcosa si spiega pure.