Nel generale clima di ottimismo verso un’estate libera da restrizioni, arriva come un tuono d’agosto l’annuncio di Germania e Austria: vietati i voli diretti dal Regno Unito. Il nuovo allarme si chiama B.1.617.2, più nota come “variante indiana”. In alcune zone dell’Inghilterra, soprattutto nel nord-ovest, si sta diffondendo con notevole velocità e ha sostituito la variante “inglese” (nome in codice B.1.1.7), che da noi è ancora dominante secondo le ultime rilevazioni. Il nome deriva dall’essere stata identificata per la prima volta in India a dicembre 2020, dove dall’aprile 2021 è diventata prevalente. Secondo i dati della banca dati Gisaid, la variante indiana è stata individuata in oltre 30 paesi su 6 continenti.

COME SEMPRE è il Regno Unito a raccogliere le maggiori informazioni sulle varianti, perché è il Paese che monitora con la maggiore sistematicità quelle in circolazione. La prima buona notizia è che i vaccini a disposizione mantengono la loro protezione quasi inalterata anche sulla variante indiana, dopo la seconda dose. A stabilirlo è uno studio del Public Health England secondo cui l’efficacia del vaccino Pfizer scende appena, dal 93% al 88%, mentre per il vaccino AstraZeneca si passa dal 66 al 60%. La variante riesce però a “bucare” i vaccini nelle persone che hanno ricevuto una sola dose, in cui la protezione scende dal 51% al 33%.

LA PREOCCUPAZIONE degli esperti riguarda invece la contagiosità del virus, che secondo l’ultimo rapporto del Sage (il locale Comitato tecnico scientifico) nella variante indiana è maggiore che in quella inglese: il tasso di trasmissione risulta superiore del 50%. Questo rischia di far tornare al di sopra di 1 l’indice Rt nelle regioni nord-occidentali del Regno Unito. E di rovinare i piani di riapertura del governo di Boris Johnson.

Ma molti esperti mettono in dubbio l’affidabilità di queste stime. «Penso che sia molto difficile valutare la trasmissibilità intrinseca della variante B.1.617.2 quando i numeri sono troppo piccoli e l’unico termine di paragone (la variante B.1.1.7) è in declino. Ci sono molti potenziali fattori confondenti» scrive su Twitter il biologo molecolare Andrew Rambaut, professore all’università di Edimburgo e membro del Covid Genomics Uk Consortium (Cog-Uk).

ALLA DIFFUSIONE della variante indiana il governo risponde con test e vaccinazioni a tappeto nelle aree in cui si sospetta che la variante abbia attecchito: Bolton, Blackburn, Bedford.

L’ondata di test e vaccini è servita a tenere sotto controllo l’espansione dei focolai della variante sudafricana, ben più temibile in quanto essa è in grado di aggirare l’immunità acquisita e vanificare le campagne vaccinali.

Dato che la diffusione dei virus non rispetta le frontiere, anche il resto dell’Europa avrà presto a che fare con la variante indiana. Nessuno però dispone di un sistema di sorveglianza paragonabile a quello britannico. L’Italia avrebbe dovuto dotarsene, secondo uno degli ultimi atti firmati dal governo Conte. Il 27 gennaio 2021 il governo ha varato il “Consorzio italiano per la genotipizzazione e fenotipizzazione di Sars-Cov2 e per il monitoraggio della risposta immunitaria alla vaccinazione”. Nell’idea dei proponenti, avrebbe dovuto essere una rete di laboratori in grado di fornire in tempo reale il quadro sulle varianti del coronavirus che circolano in Italia, coordinata dall’Istituto Superiore di Sanità (Iss) con il patrocinio della Società italiana di virologia. Ma il consorzio non è mai partito. All’Iss si attendono novità dal ministero della salute, che dovrebbe dare realtà giuridica al “consorzio”, e per ora nessuno ha nulla da dichiarare. Il direttore generale della prevenzione Gianni Rezza rimanda la palla al governo: «Più che un consorzio è un programma con una serie di sottoprogetti in attesa di una fonte di finanziamento», spiega, perché tutto quanto è stato fatto sinora da Iss, Ministero e laboratori regionali finora non ha ricevuto fondi aggiuntivi ed è stato realizzato dando fondo alle risorse esistenti. Rezza si riferisce in particolare alla sorveglianza genomica effettuata sul territorio e alle “indagini rapide”, l’unica attività sistematica di rilevazione dei ceppi virali compiuta su base mensile (l’ultima risale ormai al 20 aprile), in cui si valuta la presenza delle varianti a partire da un campione di tamponi raccolti nelle regioni.

COME SPIEGA un rapporto diffuso ieri dall’Iss, la variante inglese in aprile rappresentava quasi il 92% dei ceppi circolanti in Italia. Dal 28 dicembre 2020 a oggi, della variante indiana sono stati censiti in tutto 5 casi, tra indagini rapide e l’ordinaria sorveglianza. Ma si tratta di dati molto frammentari: finora solo l’1,11% dei tamponi positivi è stato sequenziato per verificarne il ceppo virale. Il prossimo venerdì sono attesi i risultati di una nuova indagine rapida, e lì si capirà se anche l’Italia deve cambiare marcia contro la variante indiana.