La famiglia Scippa in una scena de «La Giunta»

Enrico Berlinguer sul palco della festa nazionale dell’Unità alla Mostra D’Oltremare saluta una folla umana di cui non si vede fine: ringrazia i compagni di Napoli «che hanno fatto un ottimo lavoro». Era il 19 settembre 1976. Maurizio Valenzi, artista, intellettuale antifascista, eletto nel ’75 primo sindaco comunista della città, aveva appena dato vita a una delle stagioni politiche più visionarie di Napoli che, attraversando anche gli anni bui del terremoto e del terrorismo, durò fino al 1983, grazie alla cooperazione di consiglieri comunali illuminati, con un consenso senza precedenti e l’appoggio delle altre forze politiche. A questo periodo Alessandro Scippa, sceneggiatore e regista, figlio di Antonio Scippa, assessore e compagno fidato di Valenzi, ha dedicato La giunta, documentario coprodotto da Parallelo 41 Produzioni. Il lavoro si nutre di materiali d’archivio pubblici e privati: l’Archivio Audiovisivo del Movimento Operaio e Democratico, l’Archivio Luce, i video della famiglia Valenzi e Scippa, le fotografie di Mimmo Jodice, Luciano Ferrara. L’archivio fa da complemento ai racconti in viva voce di protagonisti e osservatori diretti o indiretti di quegli anni indimenticabili, di furore, grandi mobilitazioni, fratture sociali e telluriche, sacrifici, lotte. Sullo sfondo la Napoli di oggi che sembra come sospesa, riflessa, in attesa. In occasione dell’anteprima del 17 gennaio al Nuovo Sacher di Roma, abbiamo fatto qualche domanda a Scippa (segue proiezione evento il 20 al Modernissimo di Napoli, poi Torino, Milano, Bologna, Firenze con distribuzione indipendente).

Come nasce il film?

Da anni volevo raccontare la storia di mio padre Antonio Scippa, economista, assessore di Valenzi in tutte le giunte, al Bilancio e alla Viabilità. Lucia Valenzi tempo fa pubblicò le trascrizioni dei diari del padre. Li registrava su un piccolo Geloso. Ogni sera faceva racconti delle persone incontrate durante la giornata: viene fuori la sua anima di ritrattista. Lo fece per i primi sei mesi da sindaco nel 1975. Sono stati uno spunto eccezionale. Con la produttrice Antonella Di Nocera abbiamo deciso di fare questo lavoro durante la pandemia: anche a lei interessava la storia della giunta Valenzi, in quel periodo suo padre lavorava all’Italsider di Bagnoli, era un modo per approfondire quella stagione. C’è stato un lungo lavoro di preparazione, ho fatto tante interviste alle persone che mi suggerivano mio padre e Lucia Valenzi. Siamo arrivati a restringere il numero di testimoni, il timore era fare un film di «teste parlanti». Con il mio montatore Mauro Santini, che è di Pesaro e non ha mai messo piede a Napoli, abbiamo cercato di trovare un equilibrio tra i racconti diretti e sguardi più poetici, distanti.

Emerge una Napoli poco narrata, semi sconosciuta.

Di quel periodo spesso si raccontano solo le cose negative, ovviamente a ragione. Il negativo c’era ma io voglio fare il contro campo: abbiamo avuto momenti straordinari, pensiamo al movimento culturale, dal ’75 al 1980, delle gallerie d’arte. Lia Rumma, Peppe Morra, Lucio Amelio. Ancora la rassegna Estate a Napoli. De Simone, il Masaniello rivoluzionario di Rigillo in Piazza Mercato. Valenzi era d’accordo con Eduardo per far nascere la sua scuola di teatro. Il terremoto bloccò tutto. Della cultura aveva fatto un baluardo, le deleghe le tenne sempre per sé. Era un intellettuale, un artista. Voleva trasformare Napoli in una città più europea: ci riuscì. E la rese anche più civile. Lucia Valenti racconta come la Napoli dei ’70 sembrasse ancora un film neorealista. Quando scoppiò il colera la classe dirigente fuggì, il PCI si attivò nelle sezioni per le vaccinazioni. Poi ci fu il referendum per il divorzio. Tutto questo creò le premesse per il successo del ’75: il PCI stravinse in una delle città che Almirante considerava tra le più di destra d’Italia, dove nel dopoguerra tutti avevano votato monarchia.

Non solo Valenzi: Giulio Carlo Argan a Roma, Renato Zangheri a Bologna, Diego Novelli a Torino. Quelli furono gli anni dei «sindaci comunisti» in tutto il paese. Il racconto dell’esperienza di Napoli si trasforma in un ritratto del PCI.

A un certo punto ho preferito seguire più un filo emotivo che la cronaca. È un film assolutamente parziale, incompleto. Ho cercato di focalizzarmi su chi aveva già riflettuto e raccontato quell’epoca, militanti, giornalisti, fotografi. C’è stata poi anche una scelta di linguaggio, ho usato specchi, un prisma davanti la macchina da presa, superfici riflettenti. Non si può riproporre nostalgicamente ma si deve guardare a quei momenti. Ho cercato di ritrovare un’estetica della politica che oggi ci sembra una cosa brutta. Nel film a un tratto mi chiedo: non corro forse il rischio di cadere in una «retrotopia», un’utopia al contrario, rivolta al passato? Ma i comunisti questo facevano: guardavano al passato per andare avanti. Eugenio Dionise cita un testo di Adriano Prosperi, Un tempo senza storia, in cui si fa il paragone con l’Angelus Novus di Walter Benjamin che ha lo sguardo rivolto indietro. La memoria è fondamentale. Oggi i fascisti provano a vantarsi di un loro passato, mi domando dove sia la sinistra che racconta orgogliosamente tutto quello che è stato fatto in questo paese.

Che memoria hai di quegli anni?

Ho finito il film con le immagini di Valenzi in una Piazza del Plebiscito stracolma. È qualcosa che ho vissuto, lo ricordo molto bene. Io bambino, mia madre che mi tiene per mano, alza il braccio e inizia a cantare Bandiera Rossa. E canto anche io. In quella piazza avevo la sensazione di essere parte di un corpo sociale unico che annullava tutte le differenze. Qualcosa di totalizzante, entusiasmante. Il raffronto col presente è triste. Il «noi» della politica di 40 anni fa inglobava anche le scissioni, questo emerge da molte voci che ho riportato. Quel «noi» credo sia ciò che oggi manca.