Il padiglione dell’Albania (Arsenale, Artiglierie) sarà rappresentato da Driant Zeneli (1983, Shkoder, Albania) e curato da Alicia Knock, e non poteva esserci scelta migliore poiché Zeneli, pur molto giovane, ha già sedimentato le tracce della sua ricerca, che converge nei concetti di fallimento ed errore, attraverso un immaginario iperbolico che coniuga i termini dell’utopia.
Video, installazioni e performance sono i mezzi che l’artista, che vive tra Milano e Tirana, profila nel suo orizzonte non comune. Nel 2008 ha vinto il Premio di arte contemporanea Onufri e ha esposto in moltissimi musei internazionali. Per l’occasione, Zeneli ha realizzato una video installazione scultorea su due canali, opera impegnativa di cui chiediamo qualche anticipazione allo stesso artista.

Come si sviluppa la video installazione «Maybe the cosmos is not so extraordinary», che grazie al ricorso al genere fantasy, e senza retorica, racconta le pieghe della nazione albanese?
Maybe the cosmos is not so extraordinary è una video-scultura che trasforma lo spazio del padiglione in un luogo in cui il pubblico vedrà la storia di cinque ragazzini astronauti che scoprono una sfera cosmica in una fabbrica. Da lì, inizia il loro viaggio, accompagnati da un drone, per trasportare la sfera verso l’obiettivo: nasconderla nel corpo di una montagna. Il titolo dell’opera nasce da una frase del libro di fantascienza On the way to Epsilon Eridani (1983) del fisico e scrittore albanese Arion Hysenbegas, detta da uno dei cinque astronauti protagonisti del libro, durante il percorso verso la stella di Eridano Maybe the cosmos is not so extraordinary. Quando ho letto quella frase mi sono sentito molto vicino a questa espressione: è come se all’improvviso la forza della gravità mi stesse contraendo nello spazio. L’opera nasce in un piccolo paesino del nord est Albania, Bulqize, noto per le sue miniere di cromo che si esporta in diversi paesi del mondo, compresa la Cina. Il cromo è stato e un minerale fondamentale per l’economia albanese, dagli anni Venti a oggi. Lo usiamo ogni giorno nelle nostre posate cromate fino agli allogeni per le costruzioni delle navicelle spaziali. Mi interessava la metafora di questo minerale che si estrae con l’impegno e la sfida di tante persone, per poi espandersi ovunque.

Gli elementi che connotano la sua ricerca – e che affondano soprattutto nel concetto di fallimento e di utopia – come sono articolati in questo progetto?
L’opera fa parte della trilogia Beneath a surface there’s just another surface, che parte dal mio incontro con diverse persone, tutte legate – in un modo o in un altro – al cromo. Nella mia prima precedente trilogia When dreams become necessity (2009-2014), al centro c’ero io con vari tentativi e fallimenti. Ho poi sentito la necessità di lavorare direttamente con altre storie. Le opere filmiche non narrano storie reali, i personaggi interpretano loro stessi nella rappresentazione dei loro medesimi sogni e tentativi. Se penso alle molte opere realizzate negli ultimi dodici anni, trovo un elemento in comune: la forza della gravità che comprendiamo fin da quando siamo bambini, nel momento in cui veniamo avvertiti di stare attenti alle nostre «cadute».

La scelta di vivere tra Milano e Tirana offrono la distanza giusta per osservare e indagare meglio le trasformazioni socio-politiche che avvengono in Albania?
Tirana e Milano sono due città con due storie totalmente diverse che hanno in comune il veloce cambiamento urbanistico e la crescita demografica. Questo le rende molto vibranti e affollate di stimoli. Avere la possibilità di vivere in queste due città è come quando stiamo costruendo un nuovo lavoro e, a un certo punto, è necessario prendere un po’ distanza dall’opera per riuscire a vederla meglio.

Qual è la sfida principale che un artista vive nella rappresentazione di un paese?
Quando il commissario del padiglione albanese e il Ministero della cultura ti affidano il progetto pubblico, sicuramente ti caricano di enormi responsabilità. Penso comunque che la vera sfida nel contesto della Biennale è quella di provare a creare dei ponti e non ulteriori confini.