Botte da orbi, ma a favore di telecamera. La speranza è che poi, nel chiuso delle stanze, si possa arrivare a qualcosa di più di uno show di muscoli, tutti maschi infatti i rappresentanti dei due paesi, quanto meno a un perimetro all’interno del quale dialogare anziché insultarsi.

I DELEGATI di Cina e Stati Uniti – infatti – hanno cominciato il loro incontro in Alaska, dopo oltre un anno dall’ultimo summit, mettendo in chiaro, all’esterno e all’interno dei propri paesi, gli argomenti più forti.

Gli Stati Uniti – rappresentati dal segretario di Stato Blinken e il consigliere per la sicurezza Sullivan – hanno cominciato citando Xinjiang, Hong Kong e Taiwan, che è come nominare il diavolo per la Cina.

L’esordio di Blinken è stato infatti letale: «Discuteremo anche le nostre profonde preoccupazioni per le azioni della Cina, tra cui nello Xinjiang, Hong Kong, Taiwan, gli attacchi informatici agli Stati Uniti e la coercizione economica nei confronti dei nostri alleati. Ciascuna di queste azioni minaccia l’ordine basato su regole che mantiene la stabilità globale. Ecco perché non sono solo questioni interne e perché ci sentiamo in obbligo di sollevare questi problemi qui oggi».

A RISPONDERE con altrettanta durezza è stato Yang Jiechi (insieme a lui ad Anchorage il ministro degli esteri cinesi Wang Yi), vecchia volpe della politica cinese, braccio destro di Xi per quanto riguarda gli affari internazionali e intenzionato a trasmettere forte e chiaro il messaggio del capo (e di gran parte dei cinesi, va detto): «I nostri valori sono gli stessi dei valori comuni dell’umanità. Quelle sono: pace, sviluppo, equità, giustizia, libertà e democrazia (nello stesso ordine con cui li enunciò Wang Yi all’ultimo incontro delle Nazioni Unite in tema di diritti umani, ndr). Gli Usa hanno il loro stile – la democrazia in stile statunitense – e la Cina ha la democrazia in stile cinese. Non spetta solo al popolo americano, ma a tutti i popoli del mondo valutare cosa hanno fatto gli Usa nel promuovere la propria democrazia».

E ancora: «Quindi crediamo che sia importante che gli Usa cambino la propria immagine e smettano di promuovere la propria democrazia nel resto del mondo. Molte persone negli Usa hanno in realtà poca fiducia nella loro democrazia. In Cina, secondo i sondaggi d’opinione, i leader cinesi hanno l’ampio sostegno del popolo cinese».

Il fatto che le due delegazioni non abbiano mangiato insieme non deve stupire (tanto più che Yang ha parlato ben più di quanto fosse il tempo a disposizione per ogni delegato); un inizio così pesante, per quanto non ci si attendesse granché dall’incontro, è una sorpresa.

MA STA NEI FATTI: entrambi i governi si giocano molto in questa rinnovata volontà a dialogare. Biden deve tenere il punto rispetto alla dialettica di Trump e soprattutto confermare la sua intenzione di riportare gli Usa a controllare un po’ tutto quanto accade nel mondo; non a caso Sullivan e Blinken hanno citato altri paesi asiatici che Washington sta cercando di riportare al proprio fianco in modo più convinto rispetto agli ultimi quattro anni. La Cina – con tutto il peso del valore della «faccia» da salvare nelle occasioni internazionale – doveva cantarle agli Usa per dimostrare che nel mondo, in questo momento, Pechino si sta muovendo al di là del Washington consensus, senza che questa eventualità provochi la fine dell’universo.

Pechino ha ribadito la forza della sua economica, di aver superato il Covid, di avere progetti da qui al 2035. A porte chiuse, nella notte per noi, potrebbe uscire qualche comunicato più sobrio. Ma la distanza reale è quella «mostrata» in pubblico. Solo la realpolitik potrà momentaneamente riservare un terreno comune.