A distanza di tre settimane dal trasporto segreto avvenuto nella notte fra il 28 e il 29 luglio dal centro Itrec della Trisaia di Rotondella, gli interrogativi sembrano infittirsi. Dove si trova attualmente quel materiale radioattivo trasportato fino all’aereoporto militare di Gioia del Colle? Il 30 luglio, con comunicato ufficiale, la Sogin aveva dichiarato «concluso il rimpatrio negli Stati Uniti di materiali nucleari sensibili di origine americana, che erano custoditi in appositi siti sul territorio nazionale». La missione veniva inquadrata all’interno degli impegni presi dall’Italia in occasione del Vertice sulla Sicurezza Nucleare svoltosi a Seoul nel marzo del 2012. Ma si è dovuta aspettare la risposta del ministero dell’ambiente all’interrogazione parlamentare degli onorevoli Latronico, Borghi e Placido per apprendere che il tutto era inserito nel più ampio progetto Global Threat Reduction Initiative (Gtri), programma di rimpatrio negli Usa di tutte le materie nucleari di origine statunitense contenenti uranio altamente arricchito e plutonio.

Il Gtri è stato avviato nel 2004 dal National Nuclear Security Administration (Nnsa), ente che dipende dal Departement of Energie (Doe) e che ufficialmente ha lo scopo di mettere in sicurezza il materiale nucleare sensibile e vulnerabile sia ad incidenti ambientali, sia soprattutto ad ipotetici furti terroristici. Il ministero dell’ambiente a inizio agosto aveva rivelato anche il quantitativo massimo per il quale aveva dato autorizzazione al trasporto dal centro Itrec di Rotondella: 1050 grammi di biossido di uranio con uranio totale pari a 920 grammi, con arricchimento non superiore al 91% per circa 828 grammi di uranio 235.

Eppure sul sito del Nnsa, solitamente aggiornato e puntuale, fino ad oggi l’ultimo rimpatrio registrato riguarda quello di luglio dal Vietnam: non vi è traccia di materiale nucleare proveniente dall’Italia. Siamo in attesa di una risposta ufficiale, dopo aver interrogato il Doe, che ci ha invitato a domandare al Nuclear Regulatory Commission, il quale spiegando di non essere a conoscenza di alcun arrivo dall’Italia e di essere deputato solo ai trasporti nucleari civili ci ha rimandato al Nnsa.

A questo punto si risvegliano anche antichi e mai risolti interrogativi che aleggiano intorno all’Itrec di Rotondella. Questo era stato costruito fra 1965 e il 1970 per la sperimentazione del ritrattamento del combustibile nucleare derivato dal ciclo uranio-torio, il che escludeva in maniera categorica la presenza di plutonio se non in tracce infinitesimali. Un dato confermato dagli stessi responsabili del centro che hanno aperto le porte ai giornalisti il 5 agosto e spiegato che l’uranio 235 di interesse statunitense vi è entrato negli anni 70 e corrisponde a 18,5 chili e non a 12, come invece era emerso dal tavolo della trasparenza di Potenza del 2 agosto.

Niente plutonio, eppure prima le inchieste del magistrato Nicola Pace, poi quelle di Giuseppe Galante e infine quelle più recenti di Francesco Basentini hanno tutte registrato, negli anni passati, diverse e importanti anomalie nei registri di ingresso e uscita dei materiali dal centro della Trisaia e la costante attenzione nella zona dei servizi segreti britannici, statunitensi, israeliani e italiani. Da queste inchieste (l’ultima archiviata per l’impossibilità di arrivare a una verità giudiziaria a causa dei silenzi «di coloro che virtualmente potevano essere a conoscenza di fatti e circostanze») emerge, fra gli altri documenti, un rapporto della Cia «desecretato» del 2004 che riferisce di un’uscita di combustibile nucleare iracheno; una serie di strani attentati alla Techint (l’azienda deputata allora al trasporto) durante gli anni 80, e un ammonimento della della Cia al governo italiano, rimproverato di star svolgendo un’attività «non più tollerabile».

La seconda domanda dunque è: in Trisaia non vi è mai stato e non vi è plutonio? Se il ministero dell’ambiente che è partito uranio arricchito bisogna credergli, ma anche se la magistratura avanza dubbi così pesanti non si può far finta di niente. D’altra parte a sostegno della tesi ufficiale degli scopi del Nnsa, secondo la quale bisogna sottrarre opportunità di approvvigionamento di combustibile nucleare ai nuclei terroristici, ve ne è un’altra altrettanto se non più plausibile di natura economica: gli Usa rappresentano il maggior consumatore di combustibile nucleare del mondo e importano più del 95% dell’uranio che consumano. Una casa americana su cinque è alimentata a energia nucleare e alla fine di quest’anno terminerà l’accordo con il quale la Russia si era impegnata a fornire l’uranio all’industria nucleare mondiale, smantellando le vecchie testate risalenti all’epoca dell’Urss. Le miniere di materia prima sono in via di esaurimento e titanici fino a questo momento si sono rivelati gli sforzi di quegli stati nuclearisti che hanno provato ad estrarre uranio dal mare o dalle rocce ricavando infinitesimali quantità di materiale adatto ai reattori industriali a fronte di gigantesche spese.

La terza domanda a questo punto è: se da questo rimpatrio gli Usa guadagnano combustibile, l’Italia cosa guadagna? Che razza di accordo ha stipulato il governo italiano a Seoul se questo prevede solamente il rimpatrio del prezioso e costosissimo combustibile, mentre accetta di mantenere ancora le scorie statunitensi in attesa di essere trasferite nel deposito unico di scorie radioattive italiano?