Martedì l’annuncio ufficiale: l’Iran ha ripreso a inviare elettricità all’Iraq, attraversato da settimane di proteste contro le autorità di Baghdad e le imprese petrolifere straniere.

I continui blackout elettrici, sommati a disoccupazione e miseria, avevano acceso la rabbia delle città sciite del sud, repressa dall’esercito inviato dal premier al-Abadi: almeno 14 morti. Teheran ha tirato la corda, interrompendo a luglio le forniture di elettricità al vicino.

Fino a ieri, guarda caso a poche ore dall’annuncio di un accordo di governo tra forze filo-iraniane e anti-iraniane dopo il voto del 12 maggio: la coalizione dovrebbe essere formata dal vincitore delle elezioni, il religioso sciita al-Sadr, l’attuale premier al-Abadi e il blocco sunnita al-Wataniya.

Teheran, sotto la pressione sempre più brutale di Stati uniti e Israele, non può permettersi altro caos alle frontiere. Soprattutto dopo il duro colpo sferrato lunedì dal gigante petrolifero francese Total. Spaventata dalle sanzioni Usa, la compagnia ha deciso di ritirarsi dal progetto multimiliardario del South Pars, considerato al momento il bacino di gas naturale più grande al mondo.

La richiesta di esenzione dalle sanzioni non è stata accolta dall’amministrazione Trump e Total (che ha 10 miliardi di dollari di asset negli Stati uniti e il 90% delle sue operazioni coperto da banche statunitensi) ha lasciato il campo ai partner con cui nel luglio 2017 aveva firmato il contratto di sviluppo e sfruttamento del giacimento (4,8 miliardi di dollari): l’iraniana Petropars e la cinese China National Petroleum.

Così, se un anno fa, quell’accordo sembrava sancire la fine dell’isolamento iraniano (insieme a decine di contratti con imprese straniere, nel settore del turismo, delle infrastrutture, dell’auto), oggi il ritiro del gigante francese segna le difficoltà di Teheran nell’aprirsi al mondo.

A poco è servito l’appello di Bruxelles che la scorsa settimana, dopo l’annuncio di nuove sanzioni Usa, «ordinava» alle compagnie europee di proseguire sulla strada dei rapporti economici con la Repubblica islamica.

Total, è il timore del governo Rouhani, potrebbe essere la prima di una lunga serie. Al momento Teheran fa sapere di essere alla ricerca di un sostituto, fondamentale a questo punto del progetto: da soli cinesi e iraniani non sarebbero in grado di proseguire, né sul piano finanziario né su quello tecnologico. Trump ha segnato un punto.

Unica àncora di salvezza per l’accordo sul nucleare (e per la leadership iraniana) è una forte presa di posizione europea, concreta. Quella di oggi non sembra bastare: Renault, Peugeot, Daimler, Deutsche Banke Deutsche Telekom hanno già sospeso i rispettivi investimenti in Iran.