Le università sono il nuovo nemico del pensiero prevalente. La loro colpa è quella di non essere pacificate, malgrado tutto. Una posizione pericolosamente in linea con la frenesia bellica di un’Italia e un’Europa che si armano, culturalmente e materialmente.

C’è un nuovo nemico da delegittimare e criminalizzare: le università? Decenni di aziendalizzazione e privatizzazione, asservimento dei percorsi di studio al mercato del lavoro, ricerca condizionata, meritocrazia, precarietà a oltranza, burocrazia asfissiante, non hanno spento del tutto il desiderio di discussione, di critica, di trasformazione che proviene dalle università. E allora parte la crociata, in primo luogo contro i collettivi di studentesse e studenti che aprono discussioni, rivendicano voce sul presente e sul futuro, agiscono quel conflitto che è nell’essenza della democrazia.

Ma lo stesso accade ai docenti (per tutte, le reazioni all’appello sottoscritto a novembre scorso da più di quattromila universitari per il cessate il fuoco e il rispetto del diritto internazionale) e ora anche alle istituzioni accademiche (l’attacco al Senato dell’università di Torino per la mozione sulla non opportunità di partecipare al bando sulla cooperazione industriale, scientifica e tecnologica con Israele, vista la situazione di guerra a Gaza, come sollecitato, fra l’altro, da una lettera firmata da duemila docenti).

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Certo, si può controbattere, il diritto di critica vale per tutti, anche per coloro che, saldamente ancorati alla cultura egemone, obiettano a chi protesta e a chi vota mozioni non allineate, ma ora si assiste ad un passo oltre. Le posizioni dei collettivi o la mozione del senato accademico di Torino, per restare agli ultimi accadimenti, non sono solo oggetto di discussione ma di un rogo mediatico che mira ad escluderne la possibilità, di una espulsione dallo spazio democratico. Reazioni sproporzionate rispetto ai fatti e violente nella delegittimazione e nella criminalizzazione che veicolano.

Sono atteggiamenti pericolosamente in linea con la frenesia bellica di un’Italia e un’Europa che si armano, culturalmente e materialmente. È la logica binaria della dicotomia amico-nemico che giustifica e insieme fonda la deriva autoritaria. È la democrazia decidente e plebiscitaria che si sovrappone di fatto, in attesa di formalizzare il passaggio con la riforma sul premierato, alla democrazia pluralista e conflittuale. È lo stesso discorso, su un altro piano, che normalizza, attraverso la disumanizzazione, gli otto morti in mare al giorno del 2023 o il “trattamento” del disagio sociale con l’allontanamento in nome del decoro.

Se poi guardiamo al merito, appiano le falsificazioni e i capovolgimenti, assunti apoditticamente e amplificati da un’informazione arruolata. «Antisemitismo dilagante»: il giudizio della presidente del Consiglio viene riportato in maniera piana, alla pari di un dato indiscusso; ogni volta che ciò avviene si consolida e cristallizza il falso. E allora occorre ribadire, contro l’ignoranza e la strumentalizzazione, l’ovvio: criticare il governo di Israele, le sue politiche, ragionare di colonialismo, apartheid e genocidio, non è essere antisemiti. Ormai chiedere il rispetto del diritto internazionale è sovversivo, ragionare di principio pacifista è un attentato ai valori democratici, manifestare è una concessione, essere antifascisti è una colpa.

E ancora, ripetendo quanto dovrebbe essere scontato, il senso dell’università non è sfornare laureati pronti – proni? – al mercato del lavoro (o alla propria colpevolizzazione se non vi trovano posto), ma contribuire ad un percorso costellato di dubbi, ragionamenti, ricerca, in una parola alla costruzione di pensiero critico. Autonomia universitaria non significa autoreferenzialità e competitività fra atenei ma concretizzazione dell’articolo 33 della Costituzione laddove sancisce che «l’arte e la scienza sono libere e libero ne è l’insegnamento»; affermazione che a sua volta si connette alla promozione di una cultura, aperta e plurale, coerente con una democrazia fondata sul pieno sviluppo di ciascuna persona e sulla partecipazione effettiva, in una prospettiva trasformatrice.

A fronte del titolo di apertura de La Stampa del 21 marzo, «Università senza pace», viene da esclamare «per fortuna!». Grazie alle studentesse e agli studenti che non accettano una pace intesa come “pacificazione”, che spezzano la gabbia di acquiescenza e ignavia, che riflettono, discutono e contestano e così ricordano all’università il suo stesso senso.