Agli «Stati generali della natalità» ieri si è visto uno schieramento ì compatto di politici, papi, ex banchieri centrali, statistici e sindacati, tendenzialmente uomini, chiedere alle donne di fare più figli in nome degli affetti; della crescita; di più manodopera (precaria) necessaria per contribuire al sistema pensionistico e al fisco e per riportare la primavera nell’«inverno demografico». In questo scenario biopolitico, comune ai capitalismi che affrontano da anni il calo demografico della popolazione, esiste un largo consenso sullo strumento che dovrebbe permettere la «ripresa».

È l’assegno unico e universale per i figli, parte del «Family Act» che sarebbe dovuta partire il prossimo primo luglio ma il suo esordio è già slittato al 2022. Per le partite Iva a basso reddito dovrebbe essere fatta un’eccezione, ma non è ancora chiara in che forma «transitoria» l’assegno sarà erogato per i loro figli. Il governo si è impegnato in un lungo, e non scontato, percorso di approvazione di alcune deleghe.

Considerata l’attesa messianica con la quale politici, prelati e associazioni hanno rivestito questa misura, è bene riportare un minimo di lucidità evitando il rischio di ridurre l’esigenza di una riforma universalistica di un Welfare iniquo come quello italiano a un insieme di politiche familiari, ma senza minimizzare il fatto che uno strumento universale e non categoriale per le famiglie potrebbe renderlo meno disegualizzante.

Nella legge approvata restano aperte questioni interpretative molto ampie che possono cambiare radicalmente il senso della misura. Le famiglie coinvolte dovrebbero essere 7,63 milioni; 28,1 milioni di persone; 15,9 milioni di genitori e altri familiari conviventi; 10 milioni di minorenni (44 mila disabili); 2,2 milioni di maggiorenni (32 mila disabili) entro i 21 anni ai quali sarà riconosciuto un beneficio decrescente; 130 mila con età superiore a 21 anni con disabilità. Non si capisce perché non fermarsi a 20 oppure a 22, forse perché anticamente si diventava maggiorenni a 21. L’assegno unico assorbirà 14,2 miliardi di euro all’anno per misure già esistenti: detrazioni ai fini Irpef (figli a carico; per altri familiari; per coniuge; per il quarto figlio), gli assegni al nucleo familiare (natalità, premio alla nascita e fondo di sostegno alla natalità). Per arrivare ai 20 miliardi di euro bisogna considerare sei miliardi stanziati dall’ultima manovra di bilancio.

Ieri Draghi ha detto che l’assegno andrà a «tutti». Non è così semplice. Anzi, per com’è stato concepito rischia di escludere molti. Come sempre nelle politiche di Welfare la situazione è in chiaroscuro. Da un lato, è positiva l’intenzione di razionalizzare le misure, dall’altro, i fondi non sono sufficienti. E molti sono i limiti di una proposta ispirata a un universalismo selettivo che include qualcuno ed esclude altri. Secondo i calcoli di Arel, Fondazione Gorrieri e Alleanza per l’infanzia, 1,35 milioni di famiglie potrebbero subire una perdita annua mediana di 381 euro. È un paradosso: agli autonomi sarebbe riconosciuto l’assegno ai figli che non hanno mai avuto, chi invece lo ha percepito rischia di perdere risorse importanti.

Non è chiaro se davvero arriveranno 250 euro per ciascun figlio. La cifra sembra una sparata: i fondi non ci sono. Probabilmente è solo una media. Si calcola 161 euro a minorenne. Se si crea una misura più selettiva si può arrivare a 180. è stata proposta una clausola di salvaguardia per una regime transitorio di tre o quattro anni. Si dice di volere fare come in Germania. Ma in questo paese, solo per il Welfare familiare, ci sono 100 miliardi . In Italia saranno 20.

E poi c’è il problema dell’’indicatore della situazione economica equivalente (Isee). Come tutte le politiche sociali legate alla prova dei mezzi anche questa pone complicati dilemmi. In teoria dovrebbe garantire la progressività dell’assegno, dato che misura i redditi e i patrimoni dei nuclei familiari. Tuttavia sono in molti ad avere fatto notare che una misura così concepita colpirebbe le madri scoraggiandole dal cercare un lavoro, o continuare a farlo, perché altrimenti la famiglia perderebbe il beneficio. Il legame con l’Isee può scoraggiare dal risparmiare per i figli oppure incentivare l’evasione fiscale. L’Isee penalizza le famiglie numerose e povere e impedisce di creare una misura unica e duratura, I redditi variano, anche di poco. In tempi di crisi questa però è la regola.

Eliminare questo vincolo non sembra essere possibile per ora. Se così fosse creerebbe una diseguaglianza clamorosa con il reddito di cittadinanza dove l’Isee esclude moltissimi lavoratori poveri in difficoltà per la pandemia. Per l’assegno unico si potrebbe prevedere una misura universale e poi alcune fasce che garantiscono importi fissi ai più svantaggiati. Se una soluzione sarà trovata qualcuno potrebbe domandare: perché non estendere anche il «reddito di cittadinanza»? E pensare a una misura coordinata? I problemi del Welfare in Italia, un mantello di Arlecchino pieno di rattoppi, si chiamano condizionalità e categorialità. È la norma in una società capitalista.