E vai, con il Mondiale in Russia! Con Cristiano Ronaldo, Messi e Neymar, con Panama e Iran, con il Perù e quel Belgio che potrebbe anche sorprendere. Di tutto, di più. Ma noi non ci saremo: gli azzurri, per la seconda volta nella loro storia, dopo il 1958 in Svezia, sessant’anni fa, non parteciperanno alla competizione più popolare e ambita. I quattro volte Mundial resteranno, malinconicamente, a casa, davanti alla tv. Mentre le nostre calciatrici, bravissime, parteciperanno alla Coppa del prossimo anno in Francia. Dopo il 2006, vittoria a Berlino contro i francesi ai rigori, il match della testata di Zidane a Materazzi, di un prodigioso Buffon, delle perfette alchimie strategiche di Marcello Lippi, siamo usciti al primo turno in Sudafrica e in Brasile e, adesso, addirittura, siamo stati cancellati dalla Svezia, privi, tra l’altro, di Zlatan Ibrahimovic, nelle qualificazioni per la fase finale.

Giusto così, siamo sinceri. Il calcio, sartriana metafora della vita, rispecchia la nostra società, la nostra politica. Stiamo vivendo un periodo senza qualità. Sul prato verde e in Parlamento. La sinistra è scomparsa, così come la fantasia e la bellezza nel football. Ci mancano i fuoriclasse, quelli capaci di fare la differenza, di prendere la decisione giusta per il bene del collettivo o della comunità.
Arriva il Mondiale e si sprecano parole vane, non più su quale formazione mandare in campo, su quale tattica da utilizzare, ma, quel che è peggio, sul diritto o meno di chi sta in mezzo al mare, affamato assetato abbandonato, di poter ricevere aiuto, soccorso.

La vicenda dell’Aquarius è diventata lo specchio di una Paese diviso, frastornato, incredulo o incattivito, da una parte carico di odio e dall’altra incapace di credere a tanta intolleranza, a questa mancanza, assurda e assoluta, di solidarietà. E penso a come eravamo. E non mi tocca andare lontano, mi basta guardare la storia della mia famiglia. Bisnonni, nonni, genitori, parte di noi figli: abbiamo conosciuto la fatica e il dolore del mare, ma anche la benedizione dei porti aperti. Ci è stata data la possibilità, quando da noi la terra era diventata dura, le bombe avevano distrutto case e sogni, di trovare, soprattutto in Brasile, dove sono nato, la luce di una speranza, di un futuro, di una vita dignitosa. Erano lunghi viaggi in nave, terza classe, ammassati, senza niente in tasca se non la dignità, la nostalgia già del futuro. Migranti. Poveri. Abbiamo dimenticato tutto, possibile? Cosa è successo ai nostri cuori e alle nostri menti?

Ma come eravamo belli e forti nel 1982, in quel Mundial di Spagna! La nostra epopea calcistica, vestita di epica, il nostro straordinario romanzo popolare, Sandro Pertini presidente della Repubblica, in campo i ragazzi di Bearzot a superare critiche e veleni per poi battere Argentina, Brasile, Polonia e, in finale, a Madrid, Germania occidentale e far alzare la coppa a Zoff, con Pablito Rossi cannoniere della manifestazione e miglior giocatore in assoluto, con l’eleganza di Scirea, il libero gentiluomo, con l’urlo di Tardelli, a mettere per quell’attimo abbagliante da parte Ginsberg e Munch, con Gentile a fermare Maradona e Zico. E in tribuna stampa, a narrare quell’impresa omerica, c’erano Giovanni Arpino, Mario Soldati, Oreste del Buono e Gianni Brera. Che tempi, soprattutto per noi giovani cronisti: perché il calcio era, ancora, narrazione, poesia, un pasoliniano linguaggio, un gozzaniano/breriano mistero senza fine bello. Ora, lo scrivo da tempo, con amarezza, il marketing ha sostituito il dribbling, e l’azzurro del pallone è diventato color di lontananza.

È tempo di Mondiale, e noi non ci saremo. Speriamo in un futuro migliore. Sotto tutti i punti di vista.