Le ultime esternazioni di Matteo Salvini suscitano sgomento. L’immigrazione è questione di straordinaria complessità e sappiamo bene che la cifra stilistica della nostra epoca, caratterizzata dall’affermazione del c.d. “populismo” – inclusivo o esclusivo che sia – è la semplificazione.

Tuttavia, ci pare che le ultime dichiarazioni del ministro dell’interno rappresentino un salto di qualità, passando dalla semplificazione all’indicazione di un chiaro modello di gestione del conflitto politico. Voler contare di più nell’Unione europea non solo è legittimo, ma necessario.

È indubbio che il problema dei flussi migratori sia una questione da porre – e da risolvere – a livello comunitario. Ed è altrettanto indubbio che l’Italia sia in prima linea, innanzitutto per ragioni geografiche, e che stia pagando il prezzo dell’indifferenza di molti altri paesi membri.

Pertanto, risulta innegabile la necessità di un cambiamento. Tuttavia, questo cambiamento non può prescindere da un accordo su scala europea. Non abbiamo bisogno di un’indiscriminata caccia alle streghe. Non abbiamo bisogno nemmeno della riedizione di slogan e pratiche che riportano la memoria ai tempi più bui dell’Italia novecentesca.

Avremmo invece bisogno di una classe dirigente nazionale che desse avvio a difficili negoziati con gli altri paesi dell’Unione europea e si confrontasse con quella società civile italiana che ha consentito alla crisi migratoria di non trasformarsi in tragedia.

Nel breve periodo difficilmente assisteremo ad un cambio del copione che ha consentito al leader della Lega di egemonizzare l’attività del governo. Nel medio periodo, forse, qualcosa può succedere. A tre condizioni.

La prima: il Movimento 5Stelle deve comprendere bene le conseguenze che l’attuale alleanza di governo sta producendo nei confronti del Movimento stesso (come i più recenti sondaggi confermano). Questo aspetto chiama in causa la componente più inclusiva (“di sinistra”) che costituisce una delle anime più profonde dell’elettorato pentastellato.

La seconda è che il Partito democratico apra una nuova fase politica, archiviando la fallimentare gestione renziana e cercando possibili convergenze con l’agenda del M5S (a partire dal reddito di cittadinanza).

Infine, le forze politiche a sinistra del Pd dovrebbero ripensare radicalmente la loro offerta politica, ponendo le basi per una casa comune (fondata sui pilastri dell’inclusione sociale e dell’uguaglianza, sulla centralità del lavoro e sull’ambiente), verificando la possibilità di costruire un “fronte popolare” con un Partito democratico rinnovato, in alternativa alle politiche della Lega e facendo da sponda all’anima “inclusiva” presente nei pentastellati.

È una strada difficile da percorrere, ma l’alternativa consiste nell’accettazione passiva del contesto politico attuale. Sappiamo «ciò che non siamo, ciò che non vogliamo».