Del manifesto varrebbe la pena di fare un’analisi, la più circostanziata possibile, delle caratteristiche e degli aspetti più squisitamente politici e ideologici, e anche dei loro mutamenti nel corso del tempo, dai suoi fondatori fino ad oggi (mutamenti che ci sono stati, e come no), disegnando un profilo che spicca, fortemente spicca, all’interno di quello della sinistra italiana, e anzi ne costituisce parte integrante, nel corso degli ultimi cinquant’anni.

Ma io non sono in grado di tentarlo, neanche per grandi accenni, per motivi strettamente personali, ai quali mi richiamo, per giustificare i limiti anche di quello che qui di seguito mi sforzerò di dire.

Leggo tutti i giorni il manifesto, tutti i giorni, da circa quarant’anni, insieme con altri due quotidiani, il Corriere della sera e la Repubblica, della quale sono collaboratore fin dalla sua fondazione.

Potrei dire che la scelta del manifesto, altrettanto fedele di quella degli altri due, deriva per me essenzialmente da tre motivi.

Il primo, presumibilmente il più rilevante, consiste nel fatto che il manifesto, nel mondo della carta stampata quotidiana italiana, rappresenta nel modo più coerente possibile una posizione di sinistra.

Tutti i lettori del manifesto sanno che la formulazione «posizione di sinistra» si presta a mille interpretazioni, equivoci, fraintendimenti (di cui c’è traccia talvolta anche sulle colonne del giornale, inevitabilmente).

Il fatto è che soprattutto negli ultimi vent’anni (penso io) «posizione di sinistra» ha significato per questo giornale collocarsi intrepidamente in un angolo del nostro mondo politico e culturale, della nostra società nazionale, ed esaminarlo in tutti suoi aspetti, sulla base di principi che sono patrimonio di molti di noi, ma senza nessuna rigidità ideologica: se mai traendo dal «sinistrismo» fonti di «critica razionale» di alto livello.

Naturalmente, dietro questa scelta c’è la persuasione che il mondo contemporaneo, in Italia, in Europa, nel mondo, subisce ancora e ancora un predominio pressoché illimitato di valori e pratiche ispirati ai criteri del profitto e dello sfruttamento.

Sentirselo dire e argomentare ogni giorno con grande coerenza ideologica e al tempo stesso e – mi preme qui precisare un aspetto secondo me decisivo – con grande discrezione mentale (sempre la critica viene prima dell’ideologia strettamente intesa), non può che aiutare a immaginare un mondo diverso, secondo un beneficio mentale ed economico enormemente più aperto di questo.

Il secondo motivo di questa non affannosa predilezione (il manifesto si legge con piacere, non con orgasmo) è che in conseguenza del ragionamento che finora ho cercato di esporre, questo giornale allunga spesso lo sguardo dove altrimenti è difficile arrivare: lotte operaie, nascoste contese e ingiustizie di periferia. Insorgenze altrimenti destinate a rimanere misteriose, di categorie altrimenti destinate a restare isolate, donne, giovani, studenti, migranti, sfollati, senza tetto, lavoratori isolati e vittime, ancor più degli altri, dello sfruttamento padronale, ecc.

Spesso, anzi pressoché sistematicamente, questa scoperta di quelli che sono i margini nascosti e ignorati del mondo contemporaneo si spinge oltre i confini nazionali italiani: là dove sfruttamento e violenza agiscono in qualsiasi altra parte del mondo è difficile che un osservatore del manifesto non arrivi.

E infine, qualcosa che nel manifesto intreccia e unifica le due osservazioni precedenti: una sorta di vocazione al discorso critico in quasi tutti i campi, che fa da contraltare e da argine alle tendenze oggi più in atto nel mondo della conoscenza e dei saperi.

Io mi auguro che tutto ciò continui.