Una pop star caduta sulla terra
Goodbye Ziggy Modificarsi sempre è stata per David Bowie - morto a 69 anni due giorni dopo l’uscita del suo ultimo lavoro «Blackstar» - la grande intuizione. Non c’è un solo Duca bianco, ma cento, mille: un autorappresentazione che cannibalizzava se stessa e creava nuovi fermenti e visioni
Goodbye Ziggy Modificarsi sempre è stata per David Bowie - morto a 69 anni due giorni dopo l’uscita del suo ultimo lavoro «Blackstar» - la grande intuizione. Non c’è un solo Duca bianco, ma cento, mille: un autorappresentazione che cannibalizzava se stessa e creava nuovi fermenti e visioni
È stato lo scherzo che nessuno si aspettava, l’ennesimo colpo di teatro, quello più drammatico. Andarsene due giorni dopo aver pubblicato (nel giorno del suo compleanno, a 69 anni) il nuovo disco, Blackstar. Adesso si sa che erano 18 mesi che David Bowie combatteva con un tumore ma la notizia non era mai trapelata. Nemmeno era parso strano – conoscendo l’artista – che dichiarazioni e commenti artistici legati al disco fossero stati affidati a Tony Visconti, grande amico, produttore e musicista con cui Bowie aveva cominciato a lavorare con l’album Space Oddity nel ’69. «La sua morte è stata un’opera d’arte – ha dichiarato Visconti -. Ha sempre fatto come voleva e quello che voleva, Blackstar è il suo regalo di addio, per tutti noi».
Non c’è un solo Bowie e ognuno ha il suo Bowie da piangere. C’è il Bowie glam di Ziggy Stardust o Diamond Dogs, quello disco music di Young Americans o Station to Station, quello glaciale della famigerata trilogia berlinese (Low, Heroes, Lodger), quello dance di Let’s Dance o Tonight ecc. Modificarsi costantemente è stata la sua grande intuizione, un’irrefrenabile e variegata autorappresentazione che cannibalizzava se stessa e creava nuovi fermenti, intuizioni, visioni.
Il gioco è riuscito per anni, poi all’alba del Duemila il grande crash artistico. L’artista – che già negli anni Novanta faticava a centrarsi, a fiutare strade e movimenti – molla e quasi esce di scena. E questo è determinante per entrare nello spirito del musicista. Così come i Rolling Stones avevano disvelato a un pubblico bianco il mondo del blues afro-americano, così come i Beatles avevano rivelato amori per il soul e il girl group sound – trasformandosi entrambi i gruppi in diffusori e produttori di cultura – allo stesso modo Bowie si è sempre trovato nel posto giusto al momento giusto.
È lui che ci rivelava – in modo rivoluzionario – che le divisioni di sesso e genere non erano poi così importanti, è lui che imponeva a livello di massa Lou Reed (producendo Walk on the Wild Side e l’album Transformer) e Iggy Pop (China Girl, The Passenger); è sempre Bowie che incarnava la mistica di Berlino, che parlava di Lindsay Kemp o di Klaus Nomi, è Bowie che nel ’75 parlava per primo dei Kraftwerk, che lanciava il movimento new romantics e diventava un’icona apprezzata – rarissima eccezione – anche dal punk; era Bowie che intrecciava nella sua vita cinema, moda, arte, sempre lui che dava la linea su cosa si doveva ballare e che droghe più o meno sintetiche usare, è lui che sapeva tutto, era al centro di tutto e tutto sembrava andargli sempre incontro.
Noi sapevamo ben poco. È lui che rivela al mondo la potenza chitarristica dell’amico Mick Ronson, di Earl Slick, di Carlos Alomar, è Bowie che fornisce prospettive e intuizioni diverse a chitarristi come Robert Fripp e Adrian Belew. Quando la macchina Bowie si inceppa, salta anche il suo mondo. E avviene nell’unico possibile passaggio epocale che lo stesso musicista aveva previsto ma che non poteva arrestare: quello della rete, in cui tutti, ovunque e in ogni momento siamo diventati piccoli Bowie, sempre al centro – o quasi – di tutto. L’artista si ripiega allora su stesso e perde quell’aura di catalizzatore/innovatore che per anni lo aveva caratterizzato.
Perché laddove Rolling Stones o Ramones – menzionando mondi tanto distanti – hanno investito su identità artistiche specifiche e perlopiù immutate nel tempo che li hanno resi altrettanto immortali, Bowie è andato esattamente dall’altra parte e questo lo ha sicuramente, orgogliosamente e splendidamente penalizzato. Lo ammise lui stesso nel 2002 quando dichiarò che presto la musica sarebbe diventata come l’acqua corrente o l’elettricità.
Un anno dopo la Apple avrebbe immesso sul mercato l’iPod confermando come in un piccolo dispositivo potessero albergare decenni, secoli di musica. Bowie, però, anche stavolta era andato oltre: l’acqua corrente sarebbe arrivata direttamente dalla rete e non a caso sei anni dopo sarebbe nato Spotify e la magia dello streaming. In pratica era andato così oltre – in un ultimo corpo a corpo con il futuro – da predire il suo stesso depotenziamento artistico. Bowie stava rimanendo un passo indietro e per lui era l’abisso. Quello che è successo prima però ha cambiato la vita di intere generazioni.
Nel gennaio ’72, sulla scia di Hunky Dory (uscito giorni prima, nel dicembre ’71), il disco di pezzi come Changes e Life on Mars, Bowie dichiarava al Melody Maker: «Sono omosessuale e lo sono sempre stato anche quando ero David Jones (vero nome, ndr)». Nel ’76 ritratterà tutto dicendo di essere etero e che quella era solo un’invenzione di altri a cui, però, non si era sottratto e che anzi gli aveva anche giovato dal punto di vista mediatico. Ma le parole contano e quelle di Bowie pesarono culturalmente e politicamente come macigni. Seppur per gioco, nella splendida arte della eterna teatralità bowiana, mai prima l’argomento sesso era stato trattato così esplicitamente in ambito rock.
https://youtu.be/D67kmFzSh_o
Ed era ancora niente. Quando nel ’74 uscì il singolo Rebel Rebel fu un ulteriore evento epocale. Recitava il testo: «Tua madre ha una gran confusione in testa: non sa bene se sei un ragazzo o una ragazza». Anche questa era una prima volta per il rock: su se stesso – la caratteristica androginia dell’artista – e all’interno di una canzone, Bowie rimescolava identità e generi sessuali, confondeva quelle immagini maschili e femminili adolescenziali attraverso cui – come sottolineava anni fa il sociologo Dick Hebdige – si compie tradizionalmente il passaggio dall’infanzia alla maturità e dunque al mondo del lavoro.
Culturalmente aveva implicazioni enormi, sessuali, sociali. Bowie risultava dunque anche l’antidoto perfetto agli ingranaggi degli adulti. Era già avvenuto con il rock’n’roll in cui avverbi come «forever», per sempre, abbondavano nelle canzoni e puntavano a congelare flirt e aspettative adolescenziali, stavolta però il sesso era in primo piano e il 1974 non è il 2016. Anche se negli ultimi anni Bowie era stato poco prolifico (per ragioni anche di salute), era pur sempre importante sapere che c’era. Ricordare le sue mutazioni e i mille immaginari sprigionati. Ancora oggi con Blackstar. E questo nessuno ce lo porterà mai via, nemmeno il suo ultimo scherzo, il più brutto.
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