C’è un momento in cui l’oggetto del quotidiano perde il suo ruolo funzionale e, se proprio va bene, finisce in qualche angolo remoto della casa o della soffitta. Per Maria Grazia Carriero (Gioia del Colle 1980, vive e lavora a Palagiano) proprio il ritrovamento, in un armadio di famiglia in Puglia, di vecchie coperte, tessuti tradizionali realizzati al telaio e merletti che appartenevano ai nonni e al corredo di sua madre è il punto di partenza per il progetto fotografico Liminal (2021), esposto nel circuito off di Legacy – II Biennale internazionale della fotografia femminile.
«Credo fortemente nel valore degli oggetti – spiega Carriero – Sono una sorta di registratore muto di vissuti. Soprattutto quando appartengono alla nostra famiglia gli diamo un valore diverso e, anche quando ci separiamo da loro, continuano ad emanare l’energia che è stata riversata sugli oggetti stessi. La coperta ha un valore particolare perché avvolge i corpi, copre, coccola con il calore e in più cela. Il fatto di coprire e nascondere in qualche modo è rivelatorio. Il nucleo fondante di questa mia ricerca, che si riaggancia a tutti gli altri lavori che ho realizzato nel corso degli anni, è proprio il riferimento alla memoria e al vissuto dei miei antenati».

L’IDEA di «liminalità» per l’artista è legata al sottile legame tra un passato remoto e un passato prossimo in cui gli oggetti hanno un ruolo in divenire. Anche quando sono stati acquistati, trascinandosi un carico di storie estranee a quelle legate al patrimonio originario, sono altrettanto preziosi nella mappatura della stratificazione di «vissuti ancestrali». Tra i tessuti comprati da Maria Grazia Carriero ce ne sono alcuni a cui è particolarmente legata, presi a Marrakech nel 2004 /2005 quando era in Marocco per il laboratorio di arti visive dell’Unicef, dove lavorava con i bambini dell’orfanotrofio e del carcere minorile.
Suggestioni di quell’esperienza si ritrovano in alcuni riferimenti iconografici presenti in Liminal: nei ritratti che rimandano alle donne velate della medina, nei tessuti appesi alle pareti domestiche. La location del set, però, è sempre la stessa: la parete esterna di un ricovero per attrezzi nella campagna di Palagiano (Taranto), «un posto abbandonato dove mio nonno ha lavorato per tutta la vita. Ho un rapporto forte con questo luogo in cui ho vissuto nella mia infanzia».

NELLA SERIE di fotografie a colori, come in una rituale mascherata – l’artista, tra l’altro, è co-autrice insieme a Nicola Zito del saggio Masquerade. L’universo dietro la maschera (2021) – i personaggi perdono la loro identità, riaffacciandosi sulla scena «come dei guardiani a difesa dei luoghi abbandonati in cui hanno vissuto». Una ritualità costruita che rimanda ai ritratti della fotografa statunitense Phyllis Galembo (di cui Carriero conosce il lavoro) che da oltre vent’anni documenta le tradizioni etnografiche e religiose soprattutto in Africa Occidentale, Haiti e Messico. Ma c’è anche un accenno alla storia della fotografia, quando i fotografi ambulanti usavano il tessuto come fondale. Diversamente da loro che aggiravano la messinscena tagliandola fuori dall’inquadratura, Maria Grazia Carriero nella sua narrazione per frammenti, giocata sull’ambiguità della percezione, preferisce rivelarla piuttosto che celarla.