Dopo venti anni molte cose sono cambiate nel mondo. Ma i Balcani occidentali restano una zona instabile con grandi difficoltà nell’implementare i valori democratici, sopratutto lo stato di diritto. Proprio in questo periodo sono numerose le proteste contro i poteri corrotti. Purtroppo «le primavere dei popoli balcanici» hanno prodotto un frutto vistoso: il proliferare delle mafie locali. Infatti alcuni rappresentanti di questa categoria sono diventati degli «statisti», senza abbandonare le precedenti abitudini. É abbastanza deludente per le autentiche forze democratiche, il fatto che «statisti» balcanici con molte ombre di corruzione e criminalità organizzata siano diventati degli «interlocutori privilegiati» di alcuni paesi occidentali a causa di interessi geopolitici.

Per i cittadini, il sogno europeo appare sempre più lontano. Sopratutto ora con l’Ue in evidente difficoltà nel rilanciare nuove iniziative. Mentre questo quasi stallo europeo si prolunga, la Nato non perde tempo a realizzare i propri piani strategici, cioè integrare i paesi balcanici nell’Alleanza atlantica. Non rispettando sempre le procedure democratiche necessarie per l’ingresso. A proposito della Nato nei Balcani , vediamo che cosa accadeva venti anni fa.

Se sul mio diario, durante la «guerra dei 78 giorni», pubblicato in Italia, annotavo, giorno per giorno, gli argomenti salienti della giornata, cosa potrei aggiungere oggi? Forse basta associarsi a quanto ha scritto sulla prestigiosa rivista Foreign Affairs, nel numero di settembre-ottobre 1999, Michael Mandelbaum, che, nel suo editoriale, così riassunse l’esito della guerra: «A Perfect Failure» (un fallimento perfetto).

Nella scatola nera della guerra si potrebbero leggere, se lo si volesse fare, una serie di segnali di controversa lettura. Senza dubbio, la guerra contro la piccola Jugoslavia (Serbia e Montenegro), ha posto un gran numero di interrogativi: le radici storiche del conflitto, le vere ragioni dell’intervento della Nato, il modo con cui la guerra è stata condotta da entrambe le parti, le implicazioni sul piano internazionale, le conseguenze sull’ordinamento giuridico, il fenomeno mediatico, gli scenari geo-politici nei Balcani del dopoguerra, i danni alla salute e all’ambiente, causati dai bombardamenti indiscriminati e dall’uso di armi proibite…
Ad esempio, le ragioni del conflitto vanno ricercate nella storia? E se sì, quando? Nel lontano 1389, ai tempi della battaglia tra Serbi e Ottomani di Kosovo Polje, o forse ai tempi delle ben più vicine guerre balcaniche, quando nel 1912 l’esercito serbo liberò dal dominio turco il Kosovo e parte della Macedonia vardarica, mentre l’esercito montenegrino liberò Metohia. O ancora nel 1941, con la creazione della Grande Albania, di cui il Kosovo era parte integrante, sotto il protettorato dell’Italia fascista? O nel 1988, quando l’autonomia kosovara è stata ridotta da parte delle autorità serbe col consenso di tutta la Lega comunista nelle sue articolazioni repubblicane? O nel periodo successivo alla pace di Dayton nel 1995, quando le potenze internazionali sembravano non prestare particolare attenzione al Kosovo, un atteggiamento letto da serbi e albanesi in diverso modo? Un evidente paradosso di questa strana guerra sta nel fatto che è stata iniziata da parte della Nato emarginando le Nazioni Unite (ponendosi al di fuori della legalità internazionale che prescrive che sia il Consiglio di Sicurezza ad «autorizzare» le guerre) e la Russia, storico alleato della Serbia, ma anche del Montenegro. Ma, alla fine, questa stessa guerra non ha potuto essere conclusa che grazie ad una risoluzione delle Nazioni Unite.

E, per una ironia della storia, nel 2008 il modello della «guerra umanitaria» è stato abilmente utilizzato da Mosca nella sua guerra-lampo contro la Georgia per difendere le ragioni del loro «Kosovo caucasico», cioè le regioni separatiste di Abkhazia e dell’ Ossezia del sud. Un modello simile venne utilizzato nel 2014 per la Crimea.

È comunque ancora oggetto di discussione se la guerra nel 1999 fosse motivata dalla difesa dei valori o dovesse costituire la prova generale della nuova Nato, in cerca di legittimazione dopo il 1989. Da una parte, infatti, i governanti dei paesi della Nato e gran parte del sistema informativo occidentale volevano che la guerra passasse alla storia per la sua dimensione etica, «umanitaria». Anche se, come notò allora lo svizzero Denis de Rougemont, noto scrittore e pensatore: «Quando trionfa la morale, succedono sempre brutte cose». Ma il ricorso all’etica si accompagnava alla superiorità tecnologico-militare. Erano le due facce dello stesso «idealismo pratico». Al termine della costruzione della nuova mega-base militare americana a Camp Bondsteel in Kosovo, e nel 2008 la proclamazione dell’indipendenza del Kosovo, riconosciuta da una buona parte dei paesi Nato (l’Ue si è, ancora una volta , divisa sul riconoscimento), si è rafforzata da non pochi l’opinione che nel 1999 si cercava un casus belli per interessi strategici e geopolitici occidentali.

Forse, a venti anni di distanza, si può affermare senza equivoci che quella fu una guerra per l’indipendenza del Kosovo, anche se, nel 1999, gran parte dei governanti occidentali lo negava pubblicamente o non era a conoscenza dei veri piani. Ma val la pena di ricordare che la Risoluzione 1244, che ha concluso il conflitto, riconosceva la sovranità di Belgrado sul Kosovo, cui veniva garantito il diritto ad una sostanziale autonomia. Le numerose violazioni del diritto internazionale ed umanitario commesse nel 1999 hanno costituito un pericoloso precedente anche per l’invasione dell’Iraq del 2003. D’altra parte, è innegabile che la massiccia fuga dei kosovari albanesi e evidenti casi di repressione da parte dei serbi durante la guerra hanno costituito poi una giustificazione a posteriori.

Né va dimenticato che la «guerra umanitaria», che viene presentata oggi come assolutamente necessaria, e giustificata dall’atteggiamento serbo duramente repressivo, non appariva tale ancora il 21 gennaio 1999 al ministro degli Esteri Lamberto Dini, che quel giorno dichiarava in Parlamento: «(Il governo serbo…) Ha accettato i 2 mila verificatori dell’Osce che sappiamo essere dei militari, ma non sono in divisa e non sono armati…Vorrei anche sottolineare che arrivare all’occupazione militare è l’obiettivo dell’Uck. Quindi, non dovremo sorprendersi se continueranno azioni di conflitto, uccisioni di alcuni militari e paramilitari serbi. Anzi direi che, considerando il rapporto tra gli uccisi albanesi e quelli serbi, questi ultimi negli ultimi mesi sono stati uccisi in numero superiore rispetto agli albanesi. Questo è quanto ci dicono i dati riconosciuti anche dai principali paesi europei e Nato» ( Ministero degli Affari Esteri, Testi e Documenti su Politica estera dell’Italia 1999). Ma un altro italiano ha dato un illuminante contributo sulla natura della guerra. Carlo Scognamiglio, Ministro della Difesa durante il conflitto, nel suo libro «La guerra del Kosovo» (Rizzoli) si intrattiene per molte pagine sull’incontro con il generale Wesley Clark, il 17 dicembre 1998, che gli aveva spiegato come la guerra contro la Jugoslavia «sarà una campagna senza perdite per noi» (p.72) e che sarebbe iniziata in marzo. Alla domanda di Scognamiglio: «Generale, quando Lei dice inizio di primavera intende il 21 marzo?», «’Una data intorno a quella’ fu la risposta» (p.77).

Ricordiamo che nell’autunno del 1998, quando, nel corso di conversazioni confidenziali, si dava già per scontato l’inizio della guerra in primavera, le trattative di Rambouillet non erano ancora iniziate, e che i bombardamenti sulla Jugoslavia hanno rispettato puntualmente i tempi previsti dal generale Clark. Nei miei tanti incontri di allora con i politici italiani (Veltroni, Fini, Bossi, Violante, Cossiga, Cossutta, Andreotti, ecc.) avvertivo in loro anche un senso di disagio. Ma l’atteggiamento italiano può forse essere condensato in una folgorante frase del Presidente Cossiga, con cui ho avuto una lunga conversazione il 29 marzo in Senato: “non è chiaro il senso politico della guerra, ma l’Italia deve comportarsi da leale alleato della Nato.” Insomma, se posso riassumere in due frasi latine Credo quia absurdum e pacta sunt servanda.

Nel 1999 ero ambasciatore a Roma della Repubblica federale di Jugoslavia (Serbia- compreso il Kosovo – e Montenegro). Oggi sono un cittadino montenegrino. Serbia, Kosovo sono diventate per me l’estero. Ma questa è una storia cominciata nel 1991 quando Croazia e Slovenia uscirono dalla Federazione jugoslava, mentre ero ambasciatore della Jugoslavia ( con sei repubbliche) in Mozambico. In realtà cominciava proprio allora quella «primavera dei popoli» che ha causato – tanti sanguinosi conflitti, grandi speranze e sofferenze, con molte verità parallele – e ha portato alla dissoluzione della grande Jugoslavia.

Ancora una volta non posso che esprimere la mia solidarietà per le tante sofferenze patite da tutte le parti in conflitto.

* Ex ambasciatore jugoslavo in Italia. Attualmente deputato al parlamento in Montenegro