Stavolta il bicchiere, che si può vedere mezzo vuoto o mezzo pieno, è diviso per due terzi e un terzo. Perché sono esattamente diciotto su ventisette i paesi europei che hanno firmato la dichiarazione sull’avanzamento dei diritti umani per le persone Lgbtiq mentre nove, tra cui l’Italia, hanno declinato la proposta. Il documento è stato preparato dalla presidenza di turno belga del Consiglio Ue e presentato ad un evento in occasione della giornata internazionale contro omofobia, transfobia e bifobia (abbreviato con l’acronimo inglese Idahot). È un fronte sul quale il Belgio è da tempo impegnato, a partire dal primo ministro, il liberale Alexander de Croo, tanto da costituire una delle priorità del suo semestre di presidenza. Proprio ieri nel centro della capitale Bruxelles si è svolto un Pride molto partecipato, al termine di una settimana intera dedicata ai diritti.

Ma come si è arrivati alla spaccatura e soprattutto al diniego dell’Italia? È molto improbabile che la decisione di Roma sia giunta all’ultimo minuto. L’Italia aveva già firmato un testo precedente contro omofobia, bifobia e transfobia datato 7 maggio e proveniente dal Servizio europeo di azione esterna, sostanzialmente il ministero degli Esteri di Bruxelles, guidato da Josep Borrell. La valutazione sull’altro documento è cominciata, a quanto si apprende, nei giorni immediatamente successivi. Bisogna quindi capire cosa è accaduto nel periodo seguente, per portare l’Italia alla non firma di venerdì scorso.

Venerdì sera, la ministra Roccella aveva offerto la propria versione: «Siamo contro le discriminazioni. Ma non possiamo firmare nulla che riguardi la negazione dell’identità maschile e femminile». Dal ministero delle pari opportunità confermano al manifesto che motivo della mancata adesione sarebbe un testo «molto sbilanciato» come quello voluto dalla presidenza belga, tutto permeato – l’accusa – da riferimenti alla «cultura gender». Leggendo la dichiarazione del 17 maggio, si trova un solo passaggio che fa riferimento all’«identità di genere» (quella che per le destre sarebbe la fantomatica «cultura gender»): «Gli Stati devono riaffermare il proprio impegno a promuovere l’uguaglianza e prevenire e combattere la discriminazione» sulla base non solo «delle caratteristiche sessuali, dell’orientamento sessuale» ma anche «dell’identità di genere e dell’espressione di genere».

Per il resto la dichiarazione prende le mosse da una recente ricerca dell’Agenzia Ue per i diritti fondamentali (Fra) che segnala l’aumento della violenza contro le persone Lgbtiq e invita la prossima Commissione a indicare la figura di un commissario all’Eguaglianza. Gli stati firmatari invitano poi Bruxelles a «perseguire e attuare una nuova strategia per migliorare i diritti delle persone Lgbtiq durante la prossima legislatura, stanziando risorse sufficienti e collaborando con la società civile». Contattata dal manifesto, la Presidenza belga ha declinato ogni commento sulla mancata adesione da parte di Roma e di altre capitali.

«Quella della ministra Roccella è una spiegazione che non convince. Mi sembra un modo per nascondere l’imbarazzo di trovarsi isolati nel contesto dei paesi dell’Europa occidentale», sostiene Brando Benifei, capodelegazione Pd all’Europarlamento nel gruppo Socialisti e democratici (S&D). Tra i firmatari del documento figurano non solo tutti i principali governi, da Madrid a Dublino, da Berlino a Lisbona passando per Parigi, ma anche di orientamenti politici diversi. A tirarsi indietro, invece, Romania, Bulgaria, Croazia, Lituania, Lettonia, Repubblica Ceca, Slovacchia e Ungheria. «Tra questi l’unico tra i membri fondatori dell’Ue è proprio l’Italia», sottolinea Benifei.

Quanto al pericolo indicato da Roccella, l’europarlamentare Pd osserva: «Se per il governo propaganda gender significa tutela dell’identità di genere e quindi anche la dignità e autodeterminazione delle persone transessuali, per noi si tratta di un argomento che non sta in piedi. E che nasconde la volontà di non schierarsi con un pieno impegno per la lotta contro tutte le discriminazioni».