Cintura di fuoco, così i palestinesi chiamano dal 7 ottobre i bombardamenti a circolo, come fossero un vortice, o un tornado. È questa l’espressione che hanno usato ieri alcuni dei sopravvissuti ai raid israeliani sulla scuola al-Sardi nel campo profughi di Nuseirat, nel centro di Gaza: una cintura di fuoco.

«Eravamo dentro la scuola e all’improvviso siamo stati bombardati, le persone sono state fatte a pezzi – racconta Anas al-Dahouk ad al Jazeera – Questo edificio ospitava famiglie e giovani, non hanno dato nessun avvertimento».

La scuola al-Sardi è gestita dalle Nazioni unite, ma non è più una scuola dal 7 ottobre. Le aule sono piene di sfollati, circa 6mila, materassi e vestiti appesi fuori ad asciugare. La struttura è la stessa di tutte le scuole dell’Unrwa in Palestina, l’agenzia per i rifugiati palestinesi: vernice bianca e blu, i colori delle Nazioni unite, tre piani e una balaustra che corre lungo tutto l’edificio. Un modo per fare ombra, qui il sole picchia forte e il balcone coperto allontana i raggi dalle porte delle aule.

A SCUOLA i bambini di Gaza non ci vanno da otto mesi e come a ogni offensiva sono migliaia le famiglie che si rifugiano nei centri dell’Onu, siano scuole, magazzini, cliniche. Le pensano più sicure: sul tetto c’è scritto «UN» a caratteri cubitali. Da anni non sono più sicure, in questo attacco ancora di meno: sono 180 i centri dell’Onu colpiti dai bombardamenti israeliani.

L’altra notte è successo alle 1.30, tanti già dormivano o ci provavano. Tre missili, dicono i sopravvissuti, hanno sventrato il secondo e il terzo piano. La giornalista Hind Khoudary è entrata dentro e l’ha mostrato in video: le pareti che danno sull’esterno sono completamente saltate, le altre ancora in piedi sono annerite.

SANGUE RAPPRESO a terra, un enorme buco sul soffitto, gli oggetti personali degli sfollati – che ormai si limitano a materassi e vestiti – pieni di polvere. Un uomo raccoglie pezzi di corpi, i cadaveri non ci sono già più, li hanno portati via i paramedici durante la notte.

Nelle buste di plastica li hanno avvolti dopo, in ospedale a Deir al Balah. Quando li hanno caricati in ambulanza, erano avvolti nelle coperte su cui dormivano poco prima.

«Era buio, non c’era elettricità, è stato difficilissimo recuperare le vittime», racconta Ayman Rashed, sfollato di Gaza City, all’Ap. Lui ne ha recuperati cinque, di corpi, tra cui due bambini e un anziano. Uno dei bimbi aveva il cranio sfondato.

Il bilancio parla di 40 uccisi, di cui 14 bambini e nove donne; 74 i feriti. L’esercito israeliano ha ammesso il raid ma ha detto di aver preso di mira «venti o trenta» miliziani di Hamas e del Jihad Islami che avevano preso parte all’attacco del 7 ottobre (1.100 israeliani uccisi, 250 rapiti).

Il portavoce Peter Lerner ha aggiunto di non essere a conoscenza di vittime civili ma di sapere che la scuola era usata come centro militare. Non ha fornito prove. Hamas nega. L’Unrwa chiede un’indagine indipendente e dice di non aver ricevuto alcun avvertimento prima del raid: «Comunichiamo le coordinate delle nostre strutture, prenderle di mira o usarle per fini militari non può diventate la norma».

Ma intanto qualcosa si sa. Si sa, scrivevano ieri il Guardian e al Jazeera, che i tre missili usati erano statunitensi, i Gbu 39: si vede dai frammenti, fotografati e filmati. Gli stessi usati dieci giorni fa nella strage delle tende a Tal al-Sultan, a Rafah.

L’OFFENSIVA ieri non si è fermata a Nuseirat: l’esercito israeliano ha colpito una casa a az-Zawayda, uccidendo un bambino, il campo di Shati, altre vittime, e di nuovo Deir al Balah, al centro, e Rafah, a sud. La conta degli uccisi palestinesi, dal 7 ottobre, ha superato i 36.600, a cui si aggiungono almeno 10mila dispersi e 83mila feriti. Ieri al confine con l’Egitto si è registrata anche la morte di un soldato israeliano di 34 anni.

A nulla sono valse le pressioni internazionali, politiche e legali, quelle del Consiglio di Sicurezza e della Corte internazionale di Giustizia. Ieri un gruppo di paesi – tra cui Argentina, Brasile, Francia, Germania, Canada, Spagna e Regno unito – ha pubblicato un comunicato congiunto di «sostegno pieno» all’accordo di tregua presentato il 31 maggio dal presidente Usa Biden: si chiede ad Hamas di accettarlo e si definisce Israele «pronto ad andare avanti».

SUL CAMPO la situazione appare diversa: il governo Netanyahu è spaccato e non è ancora chiaro se il balzo in avanti di Joe Biden sia stato effettivamente concordato con Tel Aviv, visto che il primo ministro – pressato dagli alleati dell’ultradestra – insiste a dire che l’offensiva non finirà.

E Hamas, seppure ieri l’Egitto parlasse di «segnali positivi» dal movimento islamico e di una risposta a giorni, per bocca di Sami Abu Zuhri ha sì detto di accogliere «le idee di Biden» ma ha lamentato la «mancata menzione della fine dell’aggressione o del ritiro»: «Il documento israeliano parla di negoziati aperti senza data di scadenza e di una fase in cui l’occupazione riotterrà gli ostaggi per poi riprendere la guerra».

La proposta che Biden attribuisce a Tel Aviv e pubblicata ieri in esclusiva da Middle East Eye prevede però il ritiro dell’esercito israeliano da Gaza e il cessate il fuoco permanente nella seconda fase. Resta da capire quanto la proposta letta in pubblico da Biden coincida davvero con quella di Israele. Secondo Hamas, sul tavolo ci sarebbero proposte diverse, «aperte a diverse interpretazioni».

Lo confermerebbe Haaretz, secondo cui Tel Aviv si sta opponendo alla bozza di risoluzione che gli Stati uniti presenteranno al Consiglio di Sicurezza dell’Onu nei prossimi giorni.