Credo che sia gran merito di Mario Dogliani (il manifesto, 26 gennaio) aver posto la questione del «che fare» a fronte della sovrapproduzione e della sottoccupazione conseguenti alla digitalizzazione e alla robotizzazione del capitalismo liberista.

Intendo il «che fare» della sinistra. Quella non accoppiata a prefissi dimezzanti e non aggiogata alla tirannia della governabilità, intendo quindi la sinistra che non c’è. Dopo il crollo del muro di Berlino si è via via svuotata della sua cultura politica, candidandosi poi alla gestione solo più soft della società del capitalismo liberista, rispettandone il dominio.

Dogliani, prospetta una seducente ragione riedificante della sinistra. Propone di adottare un «nuovo compromesso» come esigenza storica di una riforma della forma di stato dello stesso tipo quindi del «compromesso socialdemocratico» del secolo scorso.

Ma con rinnovato contenuto, dettato dalla necessità della creazione “di uno stato in grado di socializzare la ricchezza prodotta dalle macchine e ridistribuirla sotto forma di lavoro prezioso per la società e dignitoso per chi lo compie e sostenga la stessa domanda dei beni prodotti.

Uno Stato fortissimo «idoneo a spostare il prelievo fiscale dai redditi di lavoro all’intero valore aggiunto per creare la piena occupazione».

Un sistema, si può dire, a separazione delle funzioni, quella del capitalismo digitale che andrebbe «avanti per la sua strada», quella dello stato che «dovrà avocare a sé il compito razionalmente imprescindibile di “fare esistere” il lavoro necessario alla società».

Che il compromesso tra classi sociali, come metodo e come effetto, sia risolutivo per la fuoruscita da crisi bloccanti la dinamica storica o per precludere la ”rovina comune ” delle classi in lotta, è sicuro. Ma ha un difetto: non regge la modifica che interviene a favore di uno dei termini del rapporto di forza che lo ha imposto.

Se è infatti inconfutabile che fu un compromesso tra le due classi fondamentali della contemporaneità quello che generò lo stato sociale, costruito nel secolo scorso con la coesistenza dell’economia di mercato e quella interventista statale, con i diritti sociali che si aggiungevano a quelli conquistati dalle rivoluzioni borghesi e l’avvio alla acquisizione di elementi di eguaglianza sostanziale.

È altrettanto vero che lo stato sociale ha subito e subisce una continua mutilazione delle conquiste che lo avevano qualificato come tale.

I diritti sociali, da assoluti che erano, sono diventati «finanziariamente condizionati», crescono le distanze tra le classi, la diseguaglianza si espande, ai salari dimezzati corrispondono profitti raddoppiati, il pieno impiego è stato rimosso e sostituito dal precariato, dalle liberal-democrazie emergono rigurgiti fascisti.

Il compromesso socialdemocratico non ha resistito all’incremento della forza economica del capitalismo neoliberista.

Si aggiunga che così come il compromesso non regge la modifica del rapporto di forza tra le classi, la forma di stato non regge la modifica del compromesso. La riflette. Fu la liberalizzazione dei capitali a seguito della denunzia da parte del Presidente degli Usa degli Accordi di Bretton Woods , cinquant’anni fa, a troncare la progressione dei Trenta Gloriosi e la teorizzazione del neoliberismo operata da quel «Manifesto» del capitale che fu il Rapporto della Trilaterale.

L’esperienza novecentesca rende perciò problematica la configurazione di uno stato così forte da saper respingere le offensive del capitale qualsiasi forma abbia assunto. La rende problematica perché alla base della società resterebbe immutato il rapporto capitalistico di produzione e, con esso, la posizione dominante del capitale.

Dominante con la sua ideologia, la cui forza è comprovata dalla recessione progettata della cultura marxista e realizzata in due soli decenni, gli ultimi. Dominante, per di più, per essersi estesa nella dimensione globale, che imporrebbe un’opposizione di ampiezza adeguata, come quella continentale.

Riemerge quindi la questione del plus-potere di chi dispone dei mezzi di produzione. Di come ridurne l’intensità e l’estensione da parte di una opposizione che in qualche parte del mondo deve pure nascere.