Facciamo una scommessa? Attorno a un programma di rottura, ambizioso e convincente, è possibile creare unità e coinvolgere milioni di persone in un progetto di radicale rinnovamento del nostro Paese e del nostro continente.

Basta alzare lo sguardo. Dinnanzi alla grandezza delle sfide che ci confrontano la piccolezza della politica che ci governa suona una triste, stridente nota di rinuncia. Stride il rifiuto delle élite di governo di accettare la necessità di un profondo mutamento di un sistema palesemente ingiusto. Stride lo spettacolo di una sinistra divisa. Stride un dibattito politico totalmente avulso dalla realtà, un teatrino di personalità narcise e ignoranti, una savana in cui sciacalli si avventano per una manciata di voti sui corpi di chi muore in mare.

E tutto ciò stride ancora di più perché ci troviamo nel mezzo di una grande trasformazione che nessuno pare interessato a governare. Il mondo di oggi è già quello che Stefan Zweig chiamava il mondo di ieri. Le contrazioni del futuro sono sotto gli occhi di tutti.

A livello economico: stagnazione, picco delle ineguaglianze, scomparsa della classe media.

A livello produttivo: automazione, crisi ecologica, digitalizzazione.

A livello politico: crisi della globalizzazione, crisi dell’Unione europea, migrazioni di massa.

Abbiamo bisogno di un manifesto di rottura con un passato che non deve e non può più tornare.

Ci servono parole chiare sulla ridistribuzione della ricchezza.

Perché se 8 uomini cumulano un patrimonio pari a quello della metà più povera del mondo, questo non è solamente uno scandalo morale, ma anche un incredibile ostacolo allo sviluppo, come perfino il Fondo Monetario Internazionale arriva ad ammettere.

Tassazione progressiva, patrimoniale intelligente e tassa sulle grandi successioni sono politiche giuste quanto necessarie a rimettere in moto l’economia.

Parole chiare sull’evasione fiscale. Perché se le multinazionali cumulano miliardi di profitti grazie all’elusione permessa dal sistema dei paradisi fiscali questo rappresenta un’ipoteca sul futuro di milioni di persone e un’illegalità paragonabile a quella dei grandi trust criminali contro cui si scagliavano i versi di Bertolt Brecht.

E’ scandaloso vedere i capi di stato europei accanirsi su un decimale di deficit di bilancio mentre sono proprio i Paesi considerati più virtuosi – quali l’Olanda, dove la finanziaria degli Agnelli ha trasferito la propria sede – a permettere l’emorragia fiscale che aumenta quel deficit.

Sul futuro del lavoro. Il reddito di cittadinanza è una misura ovvia, tra l’altro presente nella maggior parte dei Paesi a capitalismo avanzato.

Ma bisogna andare oltre. Perché era il 1930 quando Keynes predisse per i suoi nipoti – che saremmo noi – una settimana lavorativa di 15 ore. E oggi si sta scoprendo che ridistribuire il lavoro farebbe crescere occupazione e produttività e diminuire inquinamento e ineguaglianze.

E restituirebbe tempo libero alle persone. Perché si lavora per vivere, e si vive per essere liberi. E’ l’ora della settimana corta, incentivata da sgravi fiscali e diritto al part-time.

Sulle migrazioni. Perché non basterà il coraggio e l’umanità di chi salva donne e uomini in mare se non saremo in grado di governare un sistema di migrazione legale, circolare, che razionalizzi una richiesta di mobilità che non andrà a cessare. Servono canali sicuri che permettano l’ottenimento di un visto per la ricerca di lavoro nei Paesi di origine e un accesso semplificato alla cittadinanza.

Sulla democrazia europea. Perché non reggerà un’Unione incentrata sulla paura, sul ricatto e sullo schiacciamento dei diritti. Non reggerà un’Unione imperniata su un ottuso metodo intergovernativo in cui 27 capi di stato, i primi responsabili delle politiche nefaste di questi anni, gettano il sasso e nascondono la mano. Ma senza Europa unita e democratica saremo staterelli alla deriva in balia del potente di turno, dei muscoli di Putin e dei tweet di Trump.

Il cantiere europeo va riaperto. O non resteranno che macerie. E per farlo bisogna costruire una grande alleanza europea come non siamo stati in grado di fare durante la primavera calda di Atene.

E poi sulla trasformazione del nostro sistema produttivo, perché il susseguirsi di crisi quotidiane non può farci dimenticare la grande crisi ecologica che ci attende.

Sul capitalismo monopolistico che va delineandosi nella Silicon Valley. Sull’automazione e sulla condivisione dei profitti derivanti dalla rivoluzione delle macchine. Sulla centralità dell’istruzione e della ricerca, per fermare la competizione al ribasso del lavoro.

In breve: sulle grandi questioni necessarie a ridefinire un sistema in stallo fra trasformazione e implosione.

Non sono questi tempi per il piccolo cabotaggio.

Il 18 giugno, in seguito all’appello di Montanari e Falcone, ci incontreremo a Roma.

Con il movimento europeo DiEM25 abbiamo già dato la nostra adesione – convinti che non si possa cambiare questa Europa senza partire anche dall’Italia.

Il primo luglio è stato invece Giuliano Pisapia a chiamare una piazza romana. Per avere successo partiamo dalle politiche e non dai nomi.

Partiamo da dieci punti attorno ai quali costruire uno spazio nuovo in cui confluiscano tutte le persone, le associazioni e i partiti che credono a questo obiettivo.

Perché non sono le idee a dividerci.

Non è più il tempo dei posizionamenti. E’ ora di dichiarare in cosa crediamo, di unirsi e dimostrare che cambiare si può.

Perché ci giochiamo il futuro. E non è più consentito sbagliare.