“C’è del metodo in questa follia”, si potrebbe dire, citando l’Amleto. Sembra che sia stato lasciato cadere l’appello, lanciato da più parti, per un ampio accordo elettorale (non un’alleanza politica), tra tutte le forze del centrosinistra e della sinistra, concordando candidati comuni nei collegi uninominali.

Siamo di fronte ad un vero e proprio suicidio politico; ma c’è pur sempre una “logica” in quanto sta accadendo. Capita infatti con una certa frequenza che le scelte dei singoli attori, considerate da ciascuno “razionali” in quanto sembrano corrispondere ad un proprio interesse immediato, producano poi effetti perversi e risultati collettivi disastrosi per tutti.

Alla radice, vi è un semplice presupposto: tutti danno per scontata la vittoria della destra. E dunque, mossi da tale aspettativa, i vari attori dell’altro versante politico seguono solo un piano B: “massimizzare” il proprio risultato in termini di seggi. Così, tutti tendono a marcare le distanze e a segnare il proprio confine.

Vale per tutti, ma un discorso a parte va fatto per il Pd che ha inanellato una serie di scelte ondivaghe e incomprensibili.

In primo luogo, è stato saggio politicamente mettere sullo stesso piano i “tre irresponsabili” che hanno provocato la crisi, quando con il M5S hai condiviso anche un dignitoso periodo di governo? Tagliando tutti i ponti con un partito che i sondaggi (nonostante tutto) continuano a dare al 10-11%, il Pd si precludeva la possibilità di costruire uno schieramento che potesse quanto meno puntare al “pareggio”.

La via scelta è stata invece quella di una coalizione più ristretta, che limitasse i danni e facesse confluire “voti utili” sul Pd (“o noi o la Meloni!”).

Tuttavia, nell’ultima fase, vi è stato uno slittamento, fino all’accettazione dei diktat di Calenda, con un documento che sbilancia l’asse politico della potenziale “coalizione”. E sorprende che ora accada questo, quando pochi giorni fa lo stesso Letta aveva ricordato come l’assurdo sistema con cui si vota “obblighi” a fare “alleanze elettorali” e non preveda alcun programma politico comune.

E dunque, hanno ragione Fratoianni e Bonelli quando, a caldo, hanno affermato che l’accordo Pd-Azione “non vincola sul piano programmatico”. Il disagio a sinistra è forte e diffuso: speriamo che tutto possa ancora essere rimesso in discussione.

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Letta e il Pd si sono cacciati in un ginepraio: era del tutto evidente come anche una coalizione “ristretta” non potesse avere certo un programma politico comune: e perché, allora, non è stata subito adottata l’ottica di un accordo elettorale e non quella di un impossibile accordo politico? E perché questa definizione di “alleanza tecnico-elettorale” valeva (o vale ancora? chi lo sa?) solo per Calenda e non anche per altri possibili partner, a cominciare dal M5S, la cui presenza sarebbe stata, ed è, essenziale per rendere davvero competitivo il fronte contro la destra?

Un coacervo di incoerenze. L’unica possibile spiegazione è che il Pd forse pensa di riattivare una dinamica simile a quella delle elezioni del 2008. La mia valutazione è che una tale strategia sia esposta ad un forte rischio di fallimento e sia viziata da alcuni basilari errori di analisi.

Molti ricorderanno che, nel 2008, il Pd di Veltroni scelse di “andare da solo” (a parte Di Pietro). Una scelta che pagò, nell’immediato: il Pd ottenne un cospicuo 33,2%, prosciugando tutto il resto della sinistra. Ma quel risultato fu possibile proprio perché riuscì efficacemente a far “passare” l’idea che l’esito di quelle elezioni non fosse scontato: il che sollecitò un ampio ricorso al “voto utile”.

Il Pd fa molto male i conti se pensa di riattivare oggi questa strategia. In primo luogo, nessuno pensa che, con le alleanze che si prospettano, possa davvero “vincere”. In secondo luogo, è molto diverso il sistema elettorale: il Porcellum, nel 2008, prevedeva un conteggio nazionale dei voti, con il premio alla coalizione vincente: e quindi la base di un possibile “voto utile” era l’intero territorio nazionale.

Quest’anno, il “voto utile” potrà funzionare, eventualmente, solo nei collegi “incerti”; ma sarà improbabile, perché dovrà comunque fare i conti con il pesante vincolo del voto unico imposto dal Rosatellum.

Oltretutto, quanti sono in effetti gli elettori che votano solo il candidato uninominale? La risposta è netta: molto pochi. In Toscana, ad esempio, nel 2018 gli elettori che hanno espresso un tale voto “esclusivo” sono stati appena il 3,6% del totale. Ed è ovvio che sia così: gli elettori si orientano innanzi tutto sul simbolo di partito, moltissimi non sanno nemmeno chi è il candidato (tra l’altro, confinato visivamente sulla scheda in uno spazio ristretto).

E questo accadrà ancor di più oggi, con i mega-collegi da 400 e 800 mila abitanti. I collegi sono decisivi per il pesante effetto “disproporzionale” che possono produrre, ma non sono il terreno primario di scelta per gli elettori.

Un accordo ampio tra forze anche molto diverse tra loro sarebbe stato, e sarebbe, un modo per neutralizzare questo pesante effetto distorsivo. E sarebbe perfettamente giustificabile anche nel dibattito pubblico: “Siamo forze molto diverse, è vero, ma presentiamo candidati comuni perché comunque non vogliamo che questa legge elettorale, che è pessima, e che doveva essere cambiata, possa regalare un grande numero di seggi alla destra, non corrispondente al reale consenso che ha nel paese”.

Era pur possibile; ma con le scelte compiute finora è stato invece lanciato un messaggio di divisione e di implicita resa, che produrrà sfiducia e smobilitazione: saremmo ancora un tempo per un generale rinsavimento…ma temo che non accadrà.