Finire il lavoro iniziato sedici anni fa, nel 2008, con la «riforma» Gelmini che ha trasformato radicalmente l’università e la ricerca italiana. Ieri la destra berlusco-meloniana, cresciuta all’ombra di quell’esperienza di governo, ha ripreso il sentiero e ha rilanciato il progetto: moltiplicare le figure precarie (cinque) con il disegno di legge di riforma dei contratti di ricerca varato dal Consiglio dei ministri, mentre in una bozza di decreto sui criteri di distribuzione del Fondo di Finanziamento Ordinario delle Università si parla di un taglio complessivo da 513 milioni di euro. Una decisione, quest’ultima, contestata da tutti gli organi universitari: i rettori della Crui (con diverse sfumature e marce indietro), i ricercatori del Cun, il Consiglio nazionale degli studenti.

I TEMPI, I MODI e il ragionamento politico che hanno portato al varo del disegno di legge richiamano effettivamente il governo Berlusconi di tre lustri fa, quello in cui sono cresciuti molti ministri, a cominciare dalla presidente del consiglio Giorgia Meloni. Anche allora la «riforma» dell’istruzione e il maxi-taglio (un miliardo all’università, otto alla scuola) furono annunciati da Gelmini e Tremonti d’estate. Il periodo in cui il paese entrava in letargo. Con una differenza: il decreto fu fatto a giugno, la conversione in legge ad agosto. Nell’agosto 2024 la ministra dell’università Anna Maria Bernini ha invece annunciato un «dialogo» con le parti sociali. Ieri, a partire dalla Flc Cgil, sono arrivate risposte a palle incatenate: «Il ddl – ha detto il sindacato – conferma i peggiori timori: toglie i soldi per le assunzioni e moltiplica il precariato».

SEDICI ANNI FA ci fu una risposta veemente: prima nel 2008 con un milione di persone in piazza il 31 ottobre sotto la pioggia, poi nel 2010 a Piazza del popolo il 14 dicembre a Roma. Fu una sconfitta, ma la resistenza ci fu. Nel frattempo l’università è cambiata, così la società. Non in meglio. Su questo che scommette il ritorno alle origini della destra: una «Gelmini due» in un paese frammentato, disperso, impotente.

LE TECNICHE RETORICHE usate ieri da Bernini nella conferenza stampa hanno richiamato antiche abitudini. A dire della ministra l’«inferno del precariato» finirà con la creazione di un nuovo contratto post-dottorale, degli assistenti alla ricerca «junior» e «senior», del «professore aggiunto» e del «contratto di collaborazione per studenti» addetti al supporto alla ricerca. Una giungla di figure che si aggiungeranno al quasi impossibile «contratto di ricerca» previsto dalla cosiddetta «riforma Verducci» del 2022. È il solito equivoco che abbiamo visto, e raccontato su Il Manifesto e in libri, in vent’anni di politiche neoliberali: si annuncia la «fine del precariato», si cancellano i precari in carne ed ossa.

BERNINI HA EVOCATO ieri anche il Jobs Act quando ha parlato di «tutele crescenti via via che si avanza nel percorso accademico». Salvo rari casi, non c’è alcuna progressione nella «carriera» accademica. Più spesso vicende tormentate, disperanti, di lavoro intermittente, gratuito e povero. Il «Jobs Act» ha generalizzato questo sistema. Un referendum della Cgil proverà ad abolirlo.

IN UN «INFERNO» PEGGIORE si ritroveranno allora gli attuali 37 mila assegnisti e ricercatori a tempo determinato «di tipo A» che tengono in piedi l’università. Da un lato, saranno falcidiati quando nel 2026 finiranno i fondi del Pnrr, una bolla creata in maniera irresponsabile da tre governi diversi; dall’altro lato, saranno messi davanti alla scelta fatale: lasciare tutto e reinventarsi talvolta a 40 anni (è accaduto a decine di migliaia di persone dopo la «Gelmini»), oppure sperare di rientrare da tre mesi a tre anni in una delle figure precarie di nuovo conio. Con gli atenei che stringeranno la cinghia per risparmiare a causa della spending review voluta dal governo Meloni. È l’inizio dell’austerità. Come 16 anni fa. La scena è la stessa.

IL DISEGNO DI LEGGE introdurrà un altro segno peggiorativo a una realtà già di per sé regressiva: la chiamata diretta. Dunque il rafforzamento del potere baronale. Da quanto è emerso dalle bozze del provvedimento non sarà più necessario passare per le «valutazioni comparative» per avere un posto precario. Basterà adattarsi a nuove forme di assistentato servile. In più per i «professori aggiunti» si prevederebbe una chiamata diretta decisa dal Consiglio di amministrazione. La svolta manageriale, iniziata con la riforma Ruberti nel 1989 sembrava compiuta con la Gelmini del 2008-2010. Il governo Meloni rafforzerà così l’aziendalizzazione e la subalternità della ricerca.

BERNINI HA ANNUNCIATO infine un «restyling» della legge Gelmini, ci lavorerà una «commissione». Si partirà dalla revisione dei «costi standard che non hanno più ragione di esistere nel Fondo Ordinario». Ieri il governo ha distribuito «50 milioni» agli atenei. È bastato per far parlare ieri di «investimenti» da parte della maggioranza, soddisfatta per l’enfasi usata dal governo. Quanto all’opposizione sembra essersi svegliata dopo settimane di distrazione. Il Pd ha parlato di «scelte irresponsabili», i Cinque Stelle di «riforma reazionaria e senza soldi».