La civiltà cinese ha rappresentato per l’Asia orientale quello che la civiltà greco-romana ha rappresentato per l’Occidente: un modello ideale a cui guardare con ammirazione, da cui trarre ispirazione, un interlocutore potente con cui tessere relazioni diplomatiche e commerciali. Nell’VIII secolo la capitale imperiale, Chang’an (l’odierna Xi’an), era la città più popolosa del mondo, con oltre un milione di abitanti, e la più cosmopolita, ospitando quasi centomila stranieri provenienti dai luoghi più diversi.

PER UN LUNGO PERIODO LA CINA è stato il paese più prospero, civile e tecnologicamente avanzato del pianeta; tra il XIII e XV secolo produceva, da sola, tra il 25% e il 30% della ricchezza globale. Poi la storia ha virato verso quella che Samuel Huntington e Kenneth Pomeranz hanno chiamato la Grande Divergenza: quel fenomeno di ridefinizione degli assetti geopolitici, avviato tra il XVI e il XVII secolo (secondo altri autori più tardi), che avrebbe determinato un cambiamento radicale delle relazioni tra stati e delle loro economie e, conseguentemente, il crollo dei livelli di produzione cinesi, che nel 1950 raggiunsero il minimo storico del 3,8% (a fronte del 27% circa degli Usa).

È solo grazie alle riforme di apertura e sviluppo avviate a partire dalla fine degli anni Settanta che è stato invertito il trend negativo, e il prodotto interno lordo è potuto risalire, nel 2015, al 17,1% (a fronte del 17,5% degli Usa), facendo della Cina la seconda potenza economica mondiale.
A differenza di quanto successo in Occidente, dove l’impero romano non è più risorto dopo la sua disgregazione, in Cina l’organizzazione imperiale è invece riuscita a superare ogni crisi e a riproporsi ogni volta in chiave più moderna, garantendo continuità e stabilità ideologica e politica per oltre duemila anni. Nell’epoca del declino politico ed economico la Cina perse la sua capacità di attrazione, che si basava su una tradizione di stampo confuciano.

NEL RIVENDICARE UN RUOLO di primo piano sullo scacchiere internazionale, Xi Jinping ha voluto riaffermare una linea di continuità con un passato glorioso, enfatizzando con orgoglio l’appartenenza a una civiltà millenaria. I valori promossi dalle concezioni filosofiche, etiche ed estetiche tradizionali, tornati attuali solo di recente dopo un periodo di duro ostracismo, concorrono a dare un nuovo spessore morale all’ideologia socialista, valorizzando le esigenze più profonde dell’uomo accanto alle considerazioni e alle strategie economiche, in modo da rafforzare un’identità collettiva che trova nella sua stessa cultura i propri punti di forza e la sua originalità.
I governanti di ogni epoca si sono costantemente ispirati alle seguenti parole di Confucio (551-479 a.C.): «Se chi vive lontano non intende sottomettersi, cerca di attrarlo con la forza persuasiva della cultura e della morale. Una volta che l’avrai attratto a te, farai in modo che le sue aspirazioni e i suoi bisogni vengano soddisfatti». (Lunyu 16.1) Vediamo qui sintetizzate le premesse della strategia che oggi siamo soliti chiamare soft power.

Per secoli il pensiero filosofico e politico cinese si è basato sulla dialettica tra due principi, opposti ma complementari: wen, che indica l’aspetto civile di una società fondata sulla cultura, l’educazione e un complesso di valori etici ritenuti imprescindibili per l’individuo, la comunità e la pratica del buon governo, e wu, che si riferisce invece alla sfera militare, valorizzando la fierezza, il coraggio e la forza delle armi. L’equilibrio basato sull’alternanza di tali principi è entrato in crisi allorché, per soddisfare i propri interessi economici in Oriente, a metà del XIX secolo le potenze occidentali hanno dato il via a una strategia che, vedendo nella Cina una potenziale minaccia, forniva la giustificazione per un intervento armato, condizionando negativamente, per oltre un secolo e mezzo, le relazioni tra le nazioni.

IL LIVELLO DI MANIPOLAZIONE mediatica raggiunse il suo apice tra il XIX e il XX secolo, con la creazione del mito del «pericolo giallo», espressione coniata per instillare nell’opinione pubblica europea la paura di un’incombente rivolta dei popoli orientali in risposta all’invasione della Cina, ritenuta evidentemente legittima, da parte delle potenze straniere, reazione che avrebbe potuto decretare la fine del dominio occidentale. Paradossalmente, l’idea del «pericolo giallo» aveva come protagonisti i cinesi, che da vittime dell’aggressione imperialista si videro trasformati in potenziali aggressori, accusati di mettere in serio pericolo la stabilità mondiale! Sull’onda del conflitto russo-giapponese vennero poi chiamati in causa anche i giapponesi, ritenuti più progrediti e quindi ancor più pericolosi, soprattutto se si fossero «fusi con i cinesi, modernizzandoli». I primi tre decenni dell’era maoista, relegando il paese in una posizione di sostanziale isolamento politico e culturale, determinarono un ulteriore indebolimento della tradizionale capacità cinese di «attrazione morbida» (fatta parziale eccezione forse per i paesi del Terzo Mondo e alcuni movimenti della sinistra europea).

Né la situazione apparve molto mutata dopo l’avvio delle politiche di riforma e apertura e il tumultuoso boom economico degli anni Ottanta e Novanta, quando una gran quantità di prodotti made in China di modesta qualità e a basso costo invasero i mercati di tutto il mondo. La scarsa propensione al rispetto delle tutele dei lavoratori, l’inesauribile bisogno di materie prime necessarie per far marciare la cosiddetta «fabbrica del mondo», l’eccesso di produttività e i rischi di dumping commerciale, la massiccia politica di investimenti finanziari, industriali, immobiliari e infrastrutturali condotta in modo sistematico in ogni continente non hanno fatto che rafforzare pregiudizi e diffidenza ed esasperare timori e paure, causando irrigidimenti da parte dei governi e forti ostilità tra la gente comune.

La teoria del «pericolo giallo» che pareva archiviata per sempre è stata così prontamente riesumata, questa volta con motivazioni tutt’altro che inconsistenti: la Cina viene ancor oggi percepita come una minaccia, prevalentemente economica, ma anche politica e militare, a causa dell’assertività mostrata su questioni complesse come, ad esempio, la definizione dei confini territoriali nel Mar Cinese Meridionale, finalizzata al controllo delle vie commerciali nei mari dell’Asia orientale.

L’AVVIO DI POLITICHE RESTRITTIVE e talvolta repressive nei confronti di intellettuali, giornalisti, avvocati e dissidenti non hanno certo concorso a migliorare l’immagine del paese. Anche investimenti di per sé positivi per lo sviluppo globale stentano a produrre gli effetti mediatici desiderati: si può citare come esempio il megaprogetto «Belt and Road Initiative», altresì noto come «nuova Via della Seta», varato nel 2013, che coinvolge 65 paesi di Asia, Europa e Africa con un dispiego di mezzi finanziari senza precedenti nella storia dell’umanità, destinato a mutare radicalmente le infrastrutture, le vie di comunicazione e di trasporto e gli assetti economici e geopolitici del pianeta.

Nonostante il Forum di metà maggio organizzato a Pechino per fare il punto dell’iniziativa abbia visto la partecipazione di 28 fra capi di stato e di governo, di oltre 1.200 delegati provenienti da 110 paesi e dei rappresentanti di 61 organizzazioni internazionali, rimangono dubbi sulle reali intenzioni di inclusività «a fondo perduto» da parte della Cina.

Inoltre, le principali industrie europee percepiscono come una minaccia il programma di ammodernamento manifatturiero «Made in China 2025». Incontrano notevoli diffidenze anche le nuove linee strategiche avviate dalla diplomazia cinese, il discorso in difesa della globalizzazione tenuto da Xi Jinping a Davos, la posizione assunta a difesa del libero mercato in opposizione alle recenti derive protezionistiche europee e americane, l’importante ruolo di mediazione svolto in occasione della crisi nordcoreana, ecc. Nonostante gli sforzi profusi, appare difficile da colmare il gap esistente fra l’immagine che la Cina ha di sé o che vorrebbe dare di sé e quella che il resto del mondo ha della Cina.

UN CASO EMBLEMATICO è rappresentato dal programma per la diffusione della lingua e della cultura cinesi, che prevede la creazione degli Istituti Confucio (IC) in numerosi paesi esteri, iniziativa considerata un autentico fiore all’occhiello della politica di soft power (il riferimento a Confucio non è pertinente, rappresentando semplicemente la brand image scelta per ragioni di marketing).
Pur ottenendo un buon successo sul fronte dell’insegnamento linguistico, gli IC lasciano molto a desiderare sul piano culturale, a causa di un’offerta di modesta qualità, per lo più incentrata su stereotipi e svilita da condizionamenti ideologici volti a limitare iniziative sgradite al regime e a presentare una visione edulcorata della realtà cinese da parte di insegnanti selezionati dallo Hanban, agenzia governativa che è emanazione, di fatto, dell’ufficio propaganda del Partito comunista. Essendo incardinati all’interno di università e centri di ricerca (un’anomalia nell’ambito degli istituti culturali che li rende unici nel loro genere) grazie a cospicui finanziamenti e benefits ai quali sembra difficile resistere, gli IC sono stati al centro di numerose polemiche, particolarmente aspre nel Nordamerica, dove le associazioni di docenti sono intervenute raccomandando a tutti gli atenei, scuole e centri culturali che ospitano gli IC di chiuderli e di sospendere ogni rapporto con lo Hanban in nome della libertà intellettuale e della trasparenza.

LA DIPLOMAZIA CINESE sta percorrendo un cammino in salita, reso impervio dall’incapacità di comprendere che una proposta culturale e uno stile di vita per risultare convincenti e ottenere consensi all’estero devono attingere a valori universali, che trascendano la dimensione nazionale. La prospettiva cinese è invece troppo incentrata sulla propria ideologia e condizionata da rigide politiche di governo, ed è forse a causa dell’effetto congiunto di queste due caratteristiche che il soft power cinese stenta ad affermarsi nel mondo.