Il termine più usato in Russia all’indomani della scontata vittoria di Vladimir Putin alle elezioni presidenziali è “consolidamento”. Consolidamento del sostegno popolare al capo del Cremlino, che ha ottenuto il quinto mandato alla guida del paese con l’87 per cento dei voti, e di conseguenza consolidamento delle scelte che lui e la sua cerchia hanno assunto negli ultimi due anni, dalla guerra in Ucraina al confronto sempre più aspro con i governi della Nato. Insomma, dalla nazione Putin ha preteso una prova senza precedenti di unità, e la nazione ha risposto con un risultato “unico”, come ha detto il portavoce del Cremlino, Dmitri Peskov.
Ieri sera Vladimir Putin è salito sul palco della Piazza Rossa (un concerto per il decennale dell’annessione della Crimea) e ha celebrato il bagno di folla, con tanto di inno nazionale e i tre candidati sideralmente sconfitti al seguito, nessuno dei quali ha raggiunto il 5%. Festeggiando esplicitamente il ritorno dei territori riconquistati.

IL MODO IN CUI questo consenso è maturato, all’estero è soggetto a diverse considerazioni. I primi a complimentarsi sono stati i leader di Iran, Corea del Nord, Cuba e Tagikistan. Nel suo messaggio a Putin, il presidente cinese, Xi Jinping, ha parlato di «partnership strategica» fra Mosca e Pechino e ha ribadito che la cooperazione fra i due paesi proseguirà in questa «nuova era». Opposta la reazione delle cancellerie occidentali. La Gran Bretagna «non riconoscerà», il voto, per il governo francese si tratta di elezioni «né libere, né democratiche», il presidente tedesco Frank-Walter Steinmeier non invierà alcuna nota a Putin, da Bruxelles l’Alto rappresentante per la politica estera europea Josep Borrell dice che le elezioni russe «sono basate sulla repressione».

Il quinto mandato garantirà a Putin trent’anni di potere continuo sulla Russia. Più di Stalin. Più di Brezhnev. Più di Pietro il Grande. Alle presidenziali del 2000 era salito al Cremlino con il 53 per cento dei voti. I trentaquattro punti in più registrati domenica dipendono in linea generale da due fattori apparentemente inconciliabili, che nella Russia di Putin sono diventati complementari: crescita economica e apparato repressivo. Il peso di quest’ultimo, è chiaro a tutti, è cresciuto ogni volta che i conti sono peggiorati. Già nel 2016, nel libro “Être opposant dans la Russie de Vladimir Poutine”, la sociologa francese Françoise Daucé metteva in guardia sul rischio che un intero blocco di opinione, in Russia, potesse essere rimosso dal dibattito pubblico. Queste elezioni hanno confermato la sua cupa tesi.

LA PROVA MATERIALE è nell’invito che la vedova di Alexei Navalny, Yulia Navalnaya, aveva rivolto agli elettori alla vigilia del voto: tutti in massa alle urne alle 12 di domenica per mostrare che il dissenso esiste. Fatta eccezione per qualche isolato intervento a Mosca, a San Pietroburgo e nella città di Kazan, le forze dell’ordine, che erano comunque pronte ad affrontare minacce di livello terroristico, sono rimaste praticamente senza lavoro. Scene ben diverse si sono verificate a Tbilisi, in Georgia, a Yerevan, in Armenia, a Tel Aviv, in Israele, e quindi nei centri in cui negli ultimi due anni decine e decine di migliaia di giovani russi sono fuggiti per evitare la mobilitazione e le sue conseguenze. È lì che la chiamata di Navalnaya ha ricevuto una risposta significativa. È lì che la protesta delle 12 ha avuto successo, con interminabili code davanti ad ambasciate e sedi consolari. Questo significa che l’opposizione si trova adesso sostanzialmente fuori dal paese. I dati elettorali in arrivo dai seggi all’estero confermano la tendenza: ora come ora le possibilità di influenzare la politica russa sono nei fatti minime, se non addirittura nulle.

SAREBBE, PERÒ, fuorviante pensare che Putin abbia vinto le elezioni con percentuali così elevate in termini di partecipazione e di consenso semplicemente rimuovendo gli ultimi spigoli di dissenso. Il paese non sembra affatto in preda, almeno all’apparenza, a quelli che, negli ultimi giorni del potere imperiale, lo scrittore Aleksandr Blok aveva chiamato «processi della propria putrefazione», e che alcuni identificano oggi in certi tratti della società russa. Quando è salito al potere, Putin non ha promesso di raggiungere il benessere collettivo entro trent’anni. Ha permesso semplicemente a una parte considerevole di cittadini di mettere insieme il denaro che serve per acquistare un’auto o una casa.

ANCHE LA GUERRA è stata sfruttata in senso economico. Nella periferia l’abbondanza di manodopera sottimpiegata e sottopagata è servita a sostenere prima le società di contractor in cerca di volontari per combattere in Ucraina, poi l’industria di stato del settore bellico, che è già arrivata a produrre un numero di munizioni tre volte superiore alla capacità complessiva degli Stati Uniti e di tutti i paesi europei. Nelle grandi città la vita di milioni di cittadini prosegue come se non ci fossero né guerra né sanzioni. A Mosca decine di cantieri si allungano dal centro verso la campagna. Oggi si vedono vecchi capannoni, fra un anno troveremo torri di vetro alte venti piani. I nomi di questi progetti sono un programma politico. “Giardini Imperiali”, “Era – Appartamenti Categoria Lusso”, “Passaporto Esclusivo”. È così che i russi, nonostante le difficoltà, evidentemente guardano alle loro esistenze e alle loro prospettive.