Vi ricordate che lo scorso 3 febbraio il presidente ucraino Viktor Fiodoroych Yanukovich aveva annunciato che avrebbe presenziato alle Olimpiadi invernali di Sochi, dopo essersi incontrato l’ultima volta con il presidente russo Vladimir Vladimirovich Putin?
Fast forward: il 22 febbraio, ieri, denuncia un putsch simile a quello che ebbe luogo nel 1933 in Germania e che mise fine alla repubblica di Weimar.
Certo la repubblica di Kiev non è mai stata lontanamente quella di Weimar di cui lamentammo la perdita e che non un solo paese democratico di allora difese, pronto a sostenere un altro pericoloso dittatore modernista e totalitario, purché anticomunista e antisovietico.
Ecco questo è un punto di partenza essenziale per impostare una partita lucida su una crisi indesiderata da molti e decisa da pochi.
L’intero geonetwork atlantico (un insieme di reti di poteri pubblici, privati, formali e informali, legali e illegali, visibili e opachi) è caratterizzato da una netta divisione tra paesi ex opulenti, fortemente integrati dal punto di vista economico e con diversi gradi di connessione politica, e un arco di crisi meridional-mediterraneo che parte dal Mali per arrivare all’Ucraina, passando per le rivoluzioni arabe, lo strazio siriano, le inquietudini turche e caucasiche e la nuova fiammata a Kiev.
Il problema di questa divisione è che ad un arco di crisi non si contrappone né un’isola felice, né un blocco stabile e nemmeno una locomotiva economica.
Gli Stati uniti sono concentrati sul proprio debito e sul riequilibrio in Asia, oltre che sulla costruzione di due trattati di libero scambio nei due oceani d’interesse; i grandi stati europei pensano al proprio ombelico e al debito da gestire; la Turchia è alle prese con una seria crisi del proprio modello politico interno ed estero e la Russia un gigante immobile al suo interno e sulla difensiva strategica.
Non lasciamoci impressionare dalle brillanti iniziative diplomatiche in Siria o dai blitz d’emergenza in Ucraina, la Russia non è che un’ombra dell’Unione sovietica e l’agenda internazionale è al massimo interdetta puntualmente, ma non dettata da Mosca.
In una ripetizione apparentemente simile alla Rivoluzione Arancione, una piazza Majdan molto mutevole per composizione politica e per organizzazione katanghese o paramilitare ha imposto, facilitata da un uso governativo della forza assai controproducente, il ribaltamento delle elezioni.
L’accelerazione della crisi si è avuta il 19 febbraio scorso quando la Banca Europea per gli investimenti ha chiuso l’attività nel paese, mentre i dimostranti occupavano una stazione di polizia e le forze di sicurezza riconquistavano un altro edificio.
Ancora un mese fa questo risultato era difficilmente prevedibile e altrettanto improbabile era uno spostamento geopolitico di Kiev.
E qui arriva la domanda che bisogna porsi: l’Italia e l’Europa vogliono davvero che l’Ucraina cambi campo, ammesso che sia saldamente nell’orbita russa? E perché?
Se questo è il progetto, allora non basta fornire sostegno politico, verbale e sanzionatorio ai partiti dell’opposizione.
Ricordiamoci che quando l’Unione europea decise di attribuire un valore politico decisivo a un trattato d’associazione che non lo poteva avere, non era affatto pronta a spendere un centesimo per aiutare una Kiev in bancarotta nell’implementazione della convergenza verso i criteri che il trattato richiede. Putin sì e rapidamente.
Sarebbe del resto ben strano per la massaia di Voghera che Berlino, così pronta a lesinare soldi a classi politiche Club Med e gaeliche inefficienti, spendaccione (e corrotte forse?), voglia pompare preziosi euro nelle fertili terre nere d’Ucraina, governate da oligarchi rapaci e politici troppo spesso cleptocratici e mafiosi.
Ipotizziamo una serie di motivi: in primo luogo allargare l’area d’influenza euratlantica ai danni della Russia; in secondo luogo creare un cuscinetto tra la Polonia e la Russia, isolando un saliente bielorusso destinato a cadere come una pera matura, e (chi sa?) liberare Königsberg da un lungo e ingiustificato servaggio; infine assicurarsi un altro fresco mercato in cui espandere l’export interno e satellitare europeo.
Si può capire in un’astratta logica di potenza, magari risuscitando il baubau di una neo-Grossdeutschland armata di euro e pronta a interventi militari, ma la cancelliera tedesca Angela Merkel è pur sempre la stessa che ha rifiutato di partecipare in Libia e Siria per non perdere la decisiva battaglia per la tripla «A» e il controllo dell’Euro(zona).
Dietro il sangue di Kiev c’è il fresco fantasma della pseudorivoluzione di Bucarest e di tutti gl’interrogativi nell’integrare situazioni più che dubbie sotto ogni standard dell’Eurozona. Caveant consules ne quid detrimenti rei publicae.