Per citare solo i più recenti “casus belli”, ricordiamo – come scrive il generale della Nato Fabio Mini nel suo bel pamphlet dimenticato Perché siamo così ipocriti sulla guerra? – che era falso il pretesto dell’incidente del Tonchino che diede il via all’intervento decennale degli Stati uniti in Vietnam, come è stato rivelato dai Pentagon Papers del 1964; come era falso il massacro di Racak del 1999, che fornì il pretesto per la guerra Nato in Kosovo (i corpi ritrovati, raccontati come “eccidio” erano frutto di una raccolta fatta a bella posta di vittime dell’Uck morte in battaglie di giorni e in un’area molto vasta), e i consiglieri militari occidentali fecero il resto; altresì era falso il pretesto delle armi di distruzione di massa di Saddam Hussein che portarono in guerra gli Stati uniti, nel pieno della guerra afghana, anche quella motivata falsamente la cui vera ragione, la vendetta dell’11 settembre 2001, è stata rivelata dalla stessa Casa bianca solo al momento del disastroso ritiro, dopo venti anni di occupazione sanguinosa e inutile.

Facciamo queste considerazioni non tanto per sottolineare alcune storiche verità, ma sotto l’influsso negativo delle parole usate dal presidente Biden nella sua lunga, imbarazzata conferenza stampa di mercoledì sera alla Casa bianca, tenuta sulla situazione della crisi americana e sull’Ucraina.

Che cosa ha detto Biden di tanto terribile?

Questo: prevediamo «una mossa di Putin, la Nato sta verificando», ma non crediamo che voglia «la guerra totale», se ci fosse una «incursione limitata» la risposta degli Stati uniti «sarebbe minore», Putin deve decidere, «se aggredirà l’Ucraina, pagherà un costo molto alto, perché gli Stati uniti hanno inviato un equipaggiamento molto sofisticato a Kiev».

Dopo settimane di trattative, questo è quanto. Sgomento e sorpresa durante la conferenza stampa, tanto che in serata la portavoce Jen Psaki si è affrettata a precisare che il presidente si riferiva «alla differenza tra una azione militare» vera e propria «e una cibernetica» – eppure Biden la differenza non l’ha fatta -e che comunque in caso di invasione «la risposta sarebbe disastrosa per la Russia». L’ambiguità della presa di posizione è arrivata al governo ucraino – quello che a tutti i costi vuole entrare nella Nato – che ha dichiarato che non accetta nessun via libera a Putin per una «invasione ridotta». Oggi Blinken incontra Lavrov, ma è difficile che si diradino le nebbie gravide di tempesta.

In buona sostanza, qual è il pretesto, il casus belli più appropriato che gli Usa e la Nato stanno cercando? Perché appare chiaro che il clima di incertezza in questo pericoloso momento, propone proprio uno scenario pretestuoso.

Temiamo, assai simile a quella che fu la vicenda georgiana dell’agosto del 2008. Quando lo sconsiderato premier Saakashvili – diventato poi perfino ministro ucraino e ora in galera in Georgia – lanciò su consiglio improvvido della Nato un attacco contro i ribelli russi e filorussi dell’Ossetia, e nel giro di 24 ore arrivarono centinaia di carri armati russi per una guerra che fu disastrosa per Tbilisi.

Questa è la possibilità: un incidente, o meglio un attacco ucraino sul fronte del Donbass – una guerra civile che ha già fatto 14mila morti e due milioni di profughi -, una tacco che provochi la reazione immediata delle truppe russe da tempo denunciate come ammassate ai confini. Non dimenticando però che gli accordi di Misk fin qui raggiunti con il ruolo centrale di Angela Merkel, dicono che la Russia non considera un’altra Crimea il Donbass, per il quale accetta una autonomia interna all’Ucraina.

Dimenticavamo di raccontare che le ambiguità della conferenza di Biden non hanno riguardato solo l’Ucraina, ma la crisi interna. Per la quale Biden riconosce che il suo programma ha raggiunto la condizione dell’impotenza, al limite della sconfitta: sei mesi fa ha decretato la sconfitta della pandemia e oggi invece negli Usa più che diseguali dilaga; l’inflazione è il dato economico più preoccupante; non riesce a superare l’ostruzionismo dei repubblicani; per i disegni sul diritto di voto non sembrano esserci speranze, contraddetti anche in casa democratica – alla faccia del Paese che si considera «faro della democrazia».

Apparteniamo alla scuola di pensiero che è contro la guerra, da bandire come strumento scellerato nelle crisi internazionali, come da dettato costituzionale. Siamo contro ogni militarismo e blocco militare, sia esso occidentale, russo, cinese o quant’altro. Una convinzione dura a morire, anche di fronte ad una evidenza tragica: i due anni di pandemia .

È mai possibile che, di fronte a ben altre priorità, i governi occidentali rivendichino l’allargamento della Nato ad Est, con sistemi d’arma, missili, truppe, basi navali e terrestri di 28 Paesi alleati, tutti intorno alla Russia, con un «assembramento ai confini» che sembra fatto apposta per provocare una reazione? È possibile che i governi europei investano in ulteriori riarmi, come fa il nostro «migliore» Draghi, o Macron nella sua prolusione programmatica?

È possibile pensare che dietro la chiacchiera sulla «transizione ecologica», ci sia il rilancio produttivo del complesso militare-industriale, che tra gli altri effetti nefasti ha quello di indurre al riarmo ogni Paese, a cominciare dalla Russia e dall’antagonista vero, la Cina? E tutti poi a cercare il nemico e ad imporre nuove sanzioni, che altro non sono ormai che un’arma a doppio taglio nell’epoca della carenza di risorse? Il tutto come unica ragione di legittimità politica.

Eppure la fragilità del sistema economico mondiale, di fronte alla carenza di energia e di materie prime dopo due anni di pandemia, dice tutto il contrario. Una fragilità che un focolaio «afghano» di guerra, acceso in piena Europa farebbe esplodere definitivamente.