Non c’è bisogno di tirare in ballo quel famoso filosofo tedesco con la barba e i capelli bianchi per rendersi conto che dietro tutti i conflitti, in questo poco entusiasmante inizio di ventunesimo secolo, ci sono sempre dei precisi interessi economici. “Follow the money”, dicono gli americani – che pure il suddetto filosofo lo hanno sempre snobbato un po’ – e seguire il denaro, in un posto come la Transnistria, è cosa piuttosto facile.

LA PICCOLA REPUBBLICA separatista al confine tra Moldavia e Ucraina è letteralmente dominata da una singola holding da sei miliardi di fatturato, la Sheriff Enterprises, che da sola controlla ogni singolo aspetto della vita economica e politica della regione. Oltre alla blasonatissima squadra di calcio locale – e alle banche, le compagnie telefoniche, i supermercati e le agenzie pubblicitarie – la Sheriff ha anche un suo movimento politico, il partito del Rinnovamento, che occupa tutti i seggi del Consiglio supremo e appoggia in modo incondizionato il presidente Vadim Krasnoselsky – il quale a sua volta è un uomo della Sheriff.

Eppure, quando il 29 febbraio scorso il congresso dei deputati della repubblica filorussa ha fatto appello a Mosca «con la richiesta di attuare misure diplomatiche per proteggere la Pridnestrovia di fronte alla crescente pressione della Moldavia», quasi nessuno, dopo aver gridato al solito complotto guerrafondaio, si è fatto sfiorare dalla più classica delle domande: cui prodest?

NEL 2014, IN VIRTÙ di un accordo commerciale siglato tra Chisinau e Bruxelles, la Transnistria ha iniziato a esportare le proprie merci in Unione europea senza pagare dazi. Di conseguenza a ciò, tra il 2015 e il 2016 l’export verso occidente è balzato dal 27% al 58%, mentre quello diretto in Russia è rapidamente sceso al 6%. La prima a beneficiarne è stata proprio la Sheriff, che da allora si è messa in affari con diverse compagnie europee (comprese quelle italiane) e il cui impatto sull’economia della regione è passato dal 40% al 60% nel giro di pochi anni.

Nel contempo però i magnati transnistriani hanno mantenuto ottimi rapporti anche con Mosca, che dal 1992 schiera a Tiraspol un piccolo contingente di 1500 soldati. Annualmente, infatti, il Cremlino dona alla piccola repubblica immense derrate di gas naturale, in assenza delle quali l’intera economia separatista – Sheriff in testa – potrebbe tranquillamente chiudere bottega.

E poi, c’è la questione dei sussidi: ad oggi, circa 200mila cittadini transnistriani hanno ottenuto il passaporto russo, che in molti casi dà diritto alla relativa pensione di Stato. Così, per tenersi buoni i “fratelli russofoni”, Putin li irrora di vitalizi a fondo perduto, che vanno a compensare i continui tagli al welfare operati da Krasnoselsky e dai suoi soci oligarchi. Non c’è da stupirsi, insomma, se fino ad ora Tiraspol si è sempre barcamenata tra formali dichiarazioni di fedeltà a Mosca e una sostanziale neutralità nei confronti dell’occidente: qualsiasi scivolone, in una direzione o nell’altra, avrebbe avuto conseguenze devastanti sulla sua rampante economia monopolistica.

IL FUNAMBOLISMO transnistriano ha tenuto botta anche all’indomani dell’invasione russa dell’Ucraina, finché, il primo gennaio di quest’anno, la Moldavia ha annunciato l’istituzione di una serie di inediti dazi doganali a danno della repubblica separatista, facendo improvvisamente saltare il banco e mettendo di fatto con le spalle al muro i plutocrati d’oltreconfine.

Per la Sheriff è stato un colpo durissimo, e dal momento che la Sheriff e la Transnistria sono praticamente la stessa cosa, Tiraspol ha subito giocato l’unica carta a sua disposizione: il famoso appello all’intervento di Mosca. “Il nostro territorio – ha pomposamente dichiarato Krasnoselsky – è sottoposto a un vero e proprio genocidio, compiuto tramite pressioni economiche, fisiche, giuridiche e linguistiche”. La Duma, come da copione, ha risposto con un comunicato “in difesa dei compatrioti della Transnistria”, suscitando le preoccupazioni di Kiev e dei suoi alleati occidentali. Da allora la tensione non ha fatto che crescere: tra la metà di marzo e l’inizio di aprile ben due droni «di dubbia provenienza» si sono schiantati su altrettante basi militari separatiste, mentre il governo Krasnoselsky ha dichiarato lo stato d’allerta antiterrorismo, con conseguente limitazioni dei passaggi alla frontiera. Non abbiamo notizie di suicidi ai piani alti della Sheriff, ma sappiamo – a proposito di “genocidio” – che già seicento operai della fabbrica Elektromash di Tiraspol sono stati lasciati a casa al grido di «è tutta colpa dei moldavi che boicottano la nostra economia».

L’ATMOSFERA, INSOMMA, è piuttosto fosca, e potrebbe esserlo ancor di più nei prossimi mesi. Il governo ucraino ha infatti recentemente annunciato che entro fine anno chiuderà i rubinetti dei gasdotti russi che attraversano i territori di Kiev in direzione Tiraspol. L’operazione porrebbe la piccola repubblica di fronte a un vero dilemma esistenziale: o abbandonare per sempre Putin, oppure unirsi ad esso con le armi in pugno, in nome del gas e per la sopravvivenza della Sheriff. Se così sarà, è probabile che alcune migliaia di giovani transnistriani saranno costretti a immolarsi tra il fiume Dnestr e il mar Nero, sacrificando la vita in difesa della stessa holding che per alcuni decenni ha spolpato la loro terra – con l’obbligo, s’intende, di chiamarla “patria”.