Alcune date per ricordare l’«intelligenza» dei raid della Nato. Il 27 marzo 1999, colpita la prima fabbrica chimica, nube tossica su Belgrado; il 6 aprile colpito il centro di Aleksinac, è la prima strage di civili, i morti saranno 30, il 9 aprile bombe sulla Zastava-Fiat, 124 operai feriti; il 12 aprile un attacco mirato contro un ponte a Grdelica, presso Leskovac, centra un treno passeggeri, i morti saranno 16; il 14 aprile la Nato bersaglia un convoglio di kosovari-albanesi uccidendo 64 persone a Djakovica; il 19 aprile è colpita a Pancevo la raffineria, nube tossica su due milioni di abitanti di Belgrado; il 23 aprile bombe sulla tv di stato jugoslava, dieci morti – «La tv era un nostro obiettivo, non è stato un errore» dichiara la Nato; il 28 aprile strage a Surdulica: muoiono 16 persone, 12 sono bambini; 1 e 3 maggio, la Nato colpisce un pullman di linea a nord di Pristina e una corriera di profughi, almeno 17 morti. Le bombe alla grafite annientano le centrali elettriche; il 7 maggio, in pieno giorno, la Nato bombarda con le cluster bomb il mercato e l’ospedale di Nis, 14 le vittime; sempre il 7 maggio viene colpita l’ambasciata cinese, i morti saranno 4, «avevamo le mappe sbagliate», dice la Nato; il 9 maggio 103 profughi kosovaro albanesi, nascosti nei boschi di Korisa vengono falciati da un attacco intelligente della Nato; il 21 maggio missili sul carcere di Istok, i morti saranno più di cento.

Per questi «risultati» sono stati utilizzati 1.200 aerei per un totale di 26.289 azioni accertate, 10.000 Cruise, 2.900 missili e bombe. Nel corso di 2.300 attacchi, su 995 target sono state scaricate 21.700 tonnellate di esplosivo – spesso all’uranio impoverito -, compresi 152 containers con 35.450 cluster bombs. Quanto agli «effetti collaterali» e «involontari», ecco i danni arrecati, secondo i Sindacati indipendenti serbi: 500 le vittime semiufficiali, ma le fonti sanitarie e dell’opposizione hanno denunciato quasi duemila civili uccisi; seimila i gravemente feriti; alcune migliaia di centri pubblici, uffici, ospedali, case di cura colpite dai bombardamenti (solo in Vojvodina 3.650 strutture pubbliche danneggiate). L’elenco degli ospedali bombardati, compresi quelli psichiatrici e i centri neonatali è di 8 solo a Belgrado, 2 a Novi Sad, 3 a Nis, 4 in Kosovo, 3 a Valievo, per un totale di 33 ospedali centrati. Le scuole-target sono 29, soprattutto elementari; soprassediamo su ponti spezzati (61), strade e infrastrutture; e passiamo ai monasteri e ai luoghi di culto: 59 colpiti, alcuni distrutti, a cui si aggiungono 15 musei e monumenti. 44 tra radio, tv e antenne abbattute, 24 stazioni ferroviarie, 41 di autobus e 14 aeroporti. Le fabbriche colpite sono 121, più 23 raffinerie e 28 centri agricoli, 19 le ambasciate straniere lesionate.

E come per la Bosnia, emersero dopo un anno sia per i militari della Nato che per le popolazioni locali – di fatto ignorate nelle tante inchieste parlamentari italiane – i dati allarmanti dell’Uranio impoverito. Già a dieci anni dai raid aerei, i media di Belgrado denunciavano un forte aumento, fin oal 200%, dei casi di cancro nelle zone del Kosovo più duramente colpite dai bombardamenti Nato. Il quotidiano “Politica” titolò in prima pagina: «Kosovo, picciola Hiroshima», citando un librocinchiesta della studiosa Mirjana Andelkovic-Lukic, esperta di esplosivi al Centro tecnico-scientifico dell’esercito serbo, dove si parlava di ufficiali serbi (compreso il marito) morti di cancro dopo avere partecipato a ricerche sul terreno. Dal 2000 sono state effettuate rilevazioni in più di 120 località dove il livello radioattivo dei raggi gamma e beta era due volte superiore alla norma. Fino a dieci anni fa la zona a più alta contaminazione da uranio impoverito era il Kosovo occidentale, dove è fra l’altro anche l’insediamento del contingente italiano della Kfor. Un team di medici dell’ospedale di Kosovska Mitrovica indagò in queste località riscontrando un «aumento dei casi di tumore in alcuni casi fino a quattro volte: se prima dei raid su 300mila persone i casi di cancro erano 20, dopo i bombardamenti il rapporto è salito a 20 casi su 60mila». I risultati vennero inviati all’Organizzazione mondiale della sanità.