Un carro armato dice più di mille parole. Quindici carri armati sono un messaggio chiaro: la tensione tra Israele ed Egitto, primo paese arabo a siglare un accordo di pace con Tel Aviv 45 anni fa, non era mai salita tanto. Ieri, secondo la Sinai Foundation for Human Rights, 15 veicoli militari egiziani pieni di soldati sono arrivati al confine con Israele.

Il dispiegamento giunge nel pieno di un’escalation nei toni, aggravata dall’affossamento israeliano del tumultuoso negoziato con Hamas in corso al Cairo. Prima Israele ha occupato il valico di Rafah, su lato palestinese, chiudendo del tutto al flusso di aiuti umanitari (dal 6 maggio non entra nulla). Poi l’Egitto si è unito al caso sudafricano alla Corte internazionale di Giustizia. Israele ha risposto accusando il Cairo di impedire al valico di funzionare tenendo «Gaza in ostaggio».

E IERI SONO comparsi i mezzi militari. Secondo il Wall Street Journal, il presidente al-Sisi starebbe pensando di richiamare l’ambasciatore e declassare le relazioni diplomatiche se l’offensiva su Rafah dovesse proseguire.

Rafah resta la linea rossa per molte cancellerie. Di cessate il fuoco non si parla più, nonostante una risoluzione del Consiglio di Sicurezza lo imponga: tutti concentrati a impedire un’ampia offensiva sulla città-rifugio. Lo è stata fino a dieci giorni fa: da allora 650mila del milione e mezzo di sfollati sono scappati terrorizzati verso il centro e il nord per ritrovarsi in un inferno di bombe.

Tutti gli occhi su Rafah, ma senza chiedere il cessate il fuoco totale capita che la macchina militare israeliana, intanto, si concentri altrove. Come a Jabaliya, il campo profughi simbolo della Prima Intifada che vive giorni terribili. L’esercito israeliano ha lanciato una nuova offensiva in una zona che diceva essere stata ripulita da Hamas. Di nuovo ieri il campo è stato colpito duramente, con i pochi edifici che erano rimasti in piedi ora distrutti. Secondo la protezione civile, nelle 24 ore precedenti erano stati recuperati per le strade 93 corpi, ma da allora non è stato più possibile muoversi nel campo, tagliato fuori dal resto di Gaza.

«Non solo le forze di occupazione stanno causando danni alle strutture pubbliche e a quel che resta delle case, ma come si muovono da un posto all’altro danno fuoco alle postazioni precedenti – racconta il giornalista Hani Mahmoud su al Jazeera – Ci conduce a una sola conclusione: rendere il nord, compresa Gaza City, un luogo inabitabile». Simile la testimonianza di un residente di Jabaliya, Ayman Rajab: «Carri armati e jet stanno spianando le case, i mercati, i negozi, tutto». Da parte sua l’esercito israeliano ha fatto sapere di aver raggiunto (di nuovo) il centro di Jabaliya e aver ucciso 60 combattenti palestinesi.

NON SOLO Jabaliya: raid e uccisi ieri anche a Bureij, al-Shati, Beit Hanoun, Nuseirat, Khan Younis. E poi Rafah. Ieri 13 paesi – Italia, Germania, Francia, Gran Bretagna, Giappone e Canada (tutti i membri del G7 tranne gli Usa), e poi Australia, Danimarca, Finlandia, Olanda, Nuova Zelanda, Corea del Sud e Svezia – hanno inviato una lettera in cui avvertono Israele a fermare l’offensiva sulla città meridionale e a permettere l’ingresso degli aiuti umanitari.

Lettere, appelli, ma nessuno che pensi ad azioni concrete come embargo militari o sanzioni. Ci prova il Sudafrica all’Aja: ieri seconda udienza del terzo round del caso contro Israele dopo che Pretoria ha chiesto alla Corte altre misure provvisorie per far cessare il fuoco. Il team israeliano (ai minimi termini, solo due avvocati) non ha risposto nel merito del massacro ma ha citato gli obiettivi non ancora raggiunti, distruzione di Hamas e liberazione degli ostaggi. Ieri Israele ha recuperato i cadaveri di Itzhak Gelerenter, Amit Buskila e Shani Louk, ma non ha detto dove.