Lunedì 27 è stato il primo giorno di voto referendario per la diaspora turca. Moltissimi infatti coloro che vivono all’estero. Seggi aperti in 57 diversi paesi, ma l’attenzione si concentra soprattutto sui paesi europei dove risiedono oltre 2,9 milioni di cittadini turchi, oltre il 5% degli aventi diritto totali: un numero significativo per una sfida referendaria che gli analisti vedono correre sul filo di lana.

Lo schieramento del No sembra unanime nei due maggiori partiti d’opposizione, quello repubblicano CHP e quello della sinistra HDP. Quest’ultimo è stato e continua ad essere oggetto della repressione della polizia, che accusa il partito di collusione con il PKK. Anche le rappresentanze locali sono sotto la lente d’ingrandimento delle autorità con accuse pesantissime legate alla legge antiterrorismo: il co-presidente del partito regionale DBP Kamuran Yüksek, esponente di spicco della comunità curda, è stato condannato in contumacia dalla 5° corte penale di Diyarbakir ad 8 anni e 9 mesi di carcere per associazione terroristica.

Tuttavia il sostegno di cui godono CHP e HDP, che hanno ottenuto il 25 e il 13% alle scorse elezioni generali, non sarebbe da solo sufficiente a garantire la vittoria del No. Peseranno soprattutto gli elettori della destra, il cui voto sarà determinante. L’AKP è lanciato in una campagna di convincimento interna rivolta soprattutto ad una parte dei propri elettori che, secondo un’indagine dell’istituto statistico Konda, non sarebbero favorevoli alla riforma costituzionale presidenziale, l’apice del progetto politico di Erdogan, seppur non esiterebbero a votare nuovamente per il partito in caso di elezioni politiche.

Ancora più a destra tiene banco il caso del partito ultra-nazionalista MHP, il cui leader Devlet Bahçeli ha improvvisamente e con il pungo duro impresso al partito la svolta pro-riforma nell’autunno scorso, cooptando i parlamentari durante le votazioni in parlamento. Il risultato è stato però la balcanizzazione del partito ed il rafforzamento della corrente interna che fa capo a Meral Aksener, donna in rampa di lancio nel mondo dell’ultradestra turca. Bahceli era riuscito a farla espellere formalmente dal partito dopo il di lei fallito tentativo di indire un congresso interno e acquisirne la leadership. Ora però l’abile oratrice riesce a riempire le piazze di sostenitori pronti a votare No e già diversi parlamentari si sono schierati su questo fronte.

Dopo le elezioni di giugno 2015 e gli ottimi risultati delle opposizioni, Erdogan aveva puntato sulla leva del nazionalismo turco, tanto da svendere il processo di pace proprio per ottenere dalla destra nazionalista il sostegno alla riforma costituzionale di cui aveva bisogno. Oggi questa strategia appare traballare, si deve correre ai ripari ed il presidente è pronto a farlo a muso duro, in un comizio a Diyarbakir previsto per il 1° aprile, con lo scopo di catturare nuovamente le preferenze del curdi conservatori.

A scaldare ulteriormente il clima elettorale arriva dagli Stati Uniti la notizia dell’arresto all’areoporto Kennedy di Mehmet Hakan Atilla, vicedirettore esecutivo di Turkiye Halk Bankasi, colosso bancario di proprietà dello stato turco. Atilla è accusato di aver favorito l’elusione delle sanzioni americane contro l’Iran. I fautori delle teorie del complotto vedono nell’arresto di Atilla una tempistica sospetta: così a ridosso del fatidico giorno del referendum, l’arresto di Atilla significa riportare agli onori della cronaca il nome di Reza Zarrab, milionario turco-iraniano vicino ad Erdogan e anch’egli arrestato negli Stati Uniti nel marzo 2016 per aver favorito l’evasione delle sanzioni internazionali.

Secondo l’accusa, Atilla avrebbe fornito copertura e protezione a Zarrab quando questi ricopriva ad Halk Bankasi la carica di Vicedirettore generale per le transizioni internazionali, carica che avrebbe utilizzato per dare accesso ad oro e valuta a Teheran, strangolata dalle sanzioni.
Zarrab era già stato arrestato in precedenza in Turchia, coinvolto nello scandalo di corruzione che nel 2013 aveva scosso i piani alti del governo turco e portato all’arresto dei figli dei ministri Muammer Guler (Interni), Zafer Çağlayan (Economia) e Erdoğan Bayraktar (Ambiente) e alle dimissioni di questi. Proprio Bayraktar aveva dichiarato che anche il primo ministro Erdogan avrebbe dovuto dimettersi.

Il clamore si era sollevato soprattutto dopo la circolazione nella stampa di un’intercettazione, che Erdogan sostiene essere un falso, in cui l’allora primo ministro avvertiva il figlio Bilal delle perquisizioni in corso, richiesta alla quale Bilal rispose di aver provveduto a far sparire tutto eccetto trentadue milioni di dollari. Erdogan ed il governo hanno sempre sostenuto che tutto lo scandalo sia stato una montatura creata dalla rete di Gulen, con il quale i rapporti si erano ormai completamente sfaldati. Ecco quindi che l’arresto di Atilla e il ritorno del caso Zarrab sulle prime pagine pone di nuovo l’attenzione su una storia recente ancora troppo scottanti per il governo in carica, in un momento decisivo come quello del referendum.

Altrettanto distruttivo, almeno per le relazioni diplomatiche turco-tedesche, appare il lancio di un’indagine della procura federale tedesca, che sta indagando su possibili crimini di spionaggio da parte dei servizi segreti turchi (MIT) sul suolo tedesco. L’agenzia turca sarebbe coinvolta nella sorveglianza di centinaia di individui considerati collegati o conniventi con la rete di Fetullah Gulen. Una lista di nomi sarebbe stata consegnata dal MIT ai colleghi tedeschi, come riportato dal capo dello spionaggio in Germania Bruno Kahl, nella speranza di una collaborazione tra le due agenzie. Il risultato ottenuto sarebbe però un clamoroso contraccolpo, con le persone spiate informate di quanto accaduto e le spie turche messe in stato d’accusa. Una mossa che di certo causerà ulteriore distanza tra Turchia e Germania, formalmente alleati Nato, e che prevedibilmente avrà le sue ripercussioni anche nella campagna referendaria.