La Lira turca affonda e in Europa torna il panico. Tremano alcune banche, a cominciare dall’italiana Unicredit (molto esposte anche la spagnola Bbva e la francese Bnp Paribas), Draghi non sottovaluta il rischio di una crisi sistemica. Certo, parliamo di una moneta nota per la sua instabilità, che da gennaio ha perso il 35% del suo valore, non nuova a spericolate fluttuazioni sui mercati valutari.
Ma il tonfo di giovedì è stato particolarmente forte, troppo forte per passare inosservato.

Minimo storico nei confronti del dollaro, una perdita che, ad inizio di seduta, è arrivata a toccare il 14% (crollo anche dei titoli di stato, che, col decennale, hanno visto schizzare i rendimenti oltre il 20%).
Erdogan ha immediatamente gridato al complotto, denunciando una «campagna» contro il proprio paese. Più realistici gli analisti economici di mezzo mondo, che hanno subito attribuito la caduta alle sanzioni di Trump (misure decise dopo l’arresto del pastore evangelico Andrew Brunson, accusato di cospirazione).
Come stanno realmente le cose? Per comprendere quanto sta accadendo è necessario andare un po’ più a fondo, fino alle storiche distorsioni dell’economia turca, rispetto alle quali la stretta dell’amministrazione americana ha fatto senz’altro da detonatore.

Negli ultimi quindici anni, quelli che coincidono con il potere dell’Akp di Recep Tayyip Erdogan, la ricchezza nazionale si è più che triplicata. In media, l’economia è cresciuta ad un ritmo del 5% annuo, con picchi del 9,2% e 8,8%, rispettivamente nel 2010 e nel 2011. Il 2017 si è chiuso con un +7,4%, ma per l’anno in corso si prevede un rallentamento (+5,4%). A questo ritmo di crescita, molto sostenuto (si è parlato di «tigre del Bosforo»), non si è accompagnata però una riduzione significativa del tasso di disoccupazione, che rimane ancora molto elevato (10%), al di sopra di quello che si registra nella più stagnante economia dell’eurozona.

Il dato si spiega col fatto che il Pil, in questi anni, è stato trainato per quasi la metà dalla spesa privata (3% del Pil), a sua volta sospinta dal crescente indebitamento delle famiglie (il debito delle famiglie oggi vale più del 50% del reddito disponibile delle stesse). D’altro canto, non si spiegherebbe un’inflazione ben al di sopra del 10% con salari medi che non superano i 400 euro al mese ed un persistente divario di reddito tra centro e periferia, città e campagna. Il resto l’hanno fatto gli investimenti pubblici, i grandi progetti infrastrutturali (tra questi il tunnel euroasiatico, i ponti sul Bosforo, l’aeroporto internazionale di Istanbul), che, secondo i piani del governo, dovrebbero toccare, da qui al 2023, i 400 miliardi di dollari.

Prestiti facili (si stima che gran parte dei prestiti erogati dalla banche sia inesigibile), bassi tassi di interesse, più importazioni, più deficit delle partite correnti, più debito con l’estero (oltre il 50% del Pil, in gran parte riferibile a famiglie e imprese).  Quest’ultimo rimane un problema serio per il paese, da molto tempo alle prese con la necessità di finanziare i suoi deficit di parte corrente con capitali stranieri. Un problema che rischia di ingigantirsi se al tracollo della divisa nazionale seguisse, nei prossimi giorni, un massiccio esodo degli investitori esteri (solo nel 2014 gli investimenti esteri sono stati pari a 12,5 miliardi di dollari).

Per un’economia solida (si pensi agli Stati Uniti) gli squilibri di parte corrente non sono un grande problema. La stessa cosa non si può dire di un paese come la Turchia, che somma ad un enorme deficit della bilancia commerciale (6% del Pil, il più elevato tra le economie emergenti del G20) un’inflazione che oscilla tra il 10 e il 15% (importazioni più costose, difficoltà a ripagare i debiti in valuta estera), a fronte di un’economia produttiva che rimane piuttosto debole.

In un quadro siffatto, non v’è dubbio che le tensioni politiche con gli Stati uniti abbiano fatto la loro parte. Hanno esasperato i timori negli investitori e aperto la strada ad una fuga che potrebbe avere conseguenze disastrose nel prossimo futuro, non solo per la Turchia. «Loro hanno i dollari, noi il nostro Dio», ha provato a rassicurare Erdogan. Intanto, un «santo» a cui votarsi già sarebbe pronto: il Fondo Monetario Internazionale.