«Il regime iraniano è lo sponsor globale del terrorismo». Così il presidente Trump ha iniziato ieri il durissimo discorso con cui ha ritirato gli Stati uniti dall’accordo sul nucleare siglato dall’Iran e i paesi del 5+1 nel luglio 2015.

«Avrebbe dovuto proteggere gli Usa e i suoi alleati dalla follia di una bomba nucleare iraniana, ma ha permesso all’Iran di arricchire uranio». E seguendo la linea tracciata una settimana fa dal suo braccio destro, il premier israeliano Netanyahu (ovviamente citato), Trump ha accusato Teheran di aver mentito, travestendo da progetto civile la corsa alla bomba nucleare: «Al centro dell’accordo c’era un’enorme finzione: che un regime omicida desiderasse solo un programma nucleare energetico pacifico. Oggi abbiamo le prove che la promessa iraniana era una bugia».

Di prove però Trump non ne ha date, non gli servono: «Gli Usa si ritirano dal Jcpoa e firmo un decreto per la reintroduzione di sanzioni economiche di più alto livello. Ogni nazione che aiuterà l’Iran nella sua ricerca dell’arma nucleare potrà essere duramente sanzionata dagli Usa».

Sanzioni che non entreranno in vigore prima di 90 giorni e che richiedono il voto del Congresso. Solo allora Washington potrà dirsi fuori dall’intesa, sebbene il nuovo consigliere alla sicurezza nazionale Bolton ieri smussasse gli angoli: gli Usa, ha detto, «sono pronti ad aprire un dialogo con l’Iran per nuovo accordo».

Ma la minaccia all’Europa e alla Russia è insita: le previsioni si sono rivelate fallaci, Trump non intende lasciare campo libero a Bruxelles e Mosca. La risposta iraniana arriva a stretto giro: «Invece di un accordo con sei paesi, ora abbiamo un accordo con cinque. Non consentiremo a Trump di vincere questa guerra psicologica», ha detto il presidente Rouhani. Per poi far sapere di aver «ordinato all’Organizzazione per l’energia atomica di star pronta a iniziare l’arricchimento dell’uranio a livelli industriali».

L’annuncio di Trump era stato anticipato pochi minuti prima dal vicepresidente Pence: uscita dall’Irandeal e reintroduzione delle sanzioni congelate dopo luglio 2015, quando il Jcpoa fu firmato dal ministro degli Esteri iraniano Zarif e i paesi del 5+1. A nulla è valso il lavoro diplomatico degli altri firmatari: la Casa bianca non ha cambiato idea, lo storico accordo (il principale successo in politica estera del predecessore Obama, insieme al disgelo con Cuba) resta per l’attuale inquilino della Casa bianca «folle».

Perché pone un limite temporale (il 2030) e perché non tiene conto del programma di missili balistici della Repubblica Islamica. Che, verrebbe da dire, potrebbe essere considerata una normale forma di difesa visti i venti di guerra che proprio Washington, insieme a Tel Aviv e Riyadh, fanno spirare sull’Iran da anni.

A nulla è valso nemmeno il monitoraggio dell’Agenzia internazionale per l’Energia Atmica che ripete a ogni piè sospinto che Teheran sta rispettando i termini dell’intesa.

Né ha avuto effetti il pressing europeo, proseguito per tutta la giornata di ieri dopo le visite di Macron e della cancelliera tedesca Merkel a Washington il mese scorso: Unione europea e singoli paesi firmatari del Jcpoa (Francia, Germania e Gran Bretagna) hanno incontrato ieri la delegazione iraniana a Bruxelles. La voce è unica: «Sostegno all’attuazione dell’accordo da parte di tutti».

Ieri Macron, dopo il discorso di Trump, dava per primo voce alle paure comuni: «Francia, Germania e Gran Bretagna si rammaricano della decisione Usa. Il regime di non proliferazione nucleare è a rischio», ha scritto su Twitter annunciando un’intesa «nuova e più ampia». Da Bruxelles hanno parlato l’Alto rappresentante agli Esteri, Mogherini, che ha ribadito «l’impegno della Ue per il rispetto dell’intesa», e il presidente del Consiglio Tusk che ha fatto appello «a un approccio europeo unito» da discutere la prossima settimana.

L’Europa teme un’escalation delle tensioni tra Washington e Teheran, alimentate fin dall’inizio della presidenza Trump e infiammate dalle pressioni saudite e israeliane. Sotto forma di conflitti bellici, quello siriano e yemenita, e di interventi indiretti, dal «rapimento» saudita del premier libanese Hariri allo show del primo ministro Netanyahu che voleva dimostrare – senza prove – presunte bugie iraniane sul programma nucleare.

I timori europei si concentrano tanto su possibili sbocchi militari della rottura quanto sui danni alle imprese del Vecchio Continente che dopo l’entrata in vigore dell’Irandeal si sono gettate su un mercato enorme (80 milioni di persone pronte ad aprirsi al mondo dopo quattro decenni di isolamento). Per poi restare al palo

. La mancata sospensione delle sanzioni alle banche iraniane impedisce il trasferimento di denaro e molti progetti miliardari fin qui siglati dai giganti europei restano in sospeso, come i memorandum firmati dai governi. E poi Peugeot, Renault, Ferrovie dello Stato (5 miliardi di dollari per l’alta velocità tra Arak e Qom e tra Teheran e Hamadan), Eni, Enel, Finmeccanica, Total impegnata nello sviluppo del giacimento South Pars (335 miliardi di m3 di gas naturale e 290 milioni di barili di condensati), la giapponese Tokyo Engineering, la russa Gazprom.