Quante sono state le vittime di attentati di matrice islamica sul suolo americano negli ultimi 15 anni? Risposta: 94. Quanti sono i terroristi provenienti dai sette paesi oggetto del decreto di Trump della settimana scorsa? Risposta: zero.

Nessuno degli attacchi compiuti negli ultimi anni, dalla strage nel night club di Orlando in Florida alla bomba contro la maratona di Boston è stato compiuto da profughi o rifugiati provenienti da quei paesi.

La realtà è che l’82% dei terroristi era americano, come Omar Mateen, lo stragista della Florida, nato a New York, oppure aveva un permesso di soggiorno regolare, come il russo Tamerlan Tsarnaev, il responsabile dell’attacco di Boston.

Altri terroristi che hanno fatto vittime americane provenivano dal Pakistan, dal Kuwait, dall’Egitto: nessuno di questi paesi è citato nell’Executive Order di venerdì scorso, come non lo è l’Arabia Saudita, da cui provenivano la maggioranza degli attentatori dell’11 settembre 2001.

In realtà il divieto di ingresso ai cittadini di sette paesi a maggioranza musulmana e il blocco temporaneo degli ingressi di tutti i rifugiati dal Medio Oriente hanno ben poco a che fare con la sicurezza nazionale e molto a che fare con lo stile di governo di Trump: dare l’impressione di mantenere le promesse elettorali con atti simbolici e fortemente provocatori.

Sui media, la parola più frequente che compare nelle cronache degli ultimi sei giorni è «caos» ma le valutazioni implicite in questo giudizio sono affrettate. I giornalisti palesemente non si sono accorti che Trump governa con l’occhio alla sua base di 63 milioni di elettori, non guardando alla burocrazia, al Congresso, ai governi stranieri che protestano e ai cittadini di buona volontà che assediano gli aeroporti per dare il benvenuto ai musulmani in arrivo.

Trump e il suo braccio destro Steve Bannon sanno che i sostenitori del nuovo presidente lo hanno votato esattamente per questo: seminare la confusione, la paura, il panico, a Washington. L’America dimenticata che lo ha portato alla Casa bianca vuole la sua rivincita sull’establishment dell’odiata capitale.

Lo spettacolare licenziamento in tronco del procuratore generale ad interim, Sally Yates, che aveva ordinato agli avvocati dell’amministrazione di non difendere davanti ai giudici federali chiamati in causa il decreto presidenziale, serviva a rafforzare l’immagine decisionista del Capo, per la gioia dei giornalisti memori dello scandalo Watergate che portò alle dimissioni di Nixon.

Trump ha messo insieme un governo fatto di lobbisti e di militari, ma con il decreto antimmigrazione ha creato una cortina fumogena impenetrabile attorno al problema dei rifugiati, mantenendo la promessa elettorale di vietare l’ingresso negli Stati Uniti a tutti i musulmani. Lunedì ha twittato: «This was a big part of my campaign».

Un divieto su basi puramente religiose non avrebbe retto il vaglio di costituzionalità e quindi è stato più o meno mascherato da provvedimento che riguarda i paesi dove c’è una presenza del terrorismo islamico. Come abbiamo visto, si tratta di una menzogna ma l’importante era creare lo scandalo, il polverone, dividere gli Stati Uniti fra autentici patrioti e “amici dei terroristi”, una categoria che ovviamente comprende i giornali di opposizione, le organizzazioni per i diritti civili e, a questo punto, l’intera California.

Il decreto era vago e quattro giudici federali ne hanno bloccato alcune parti, benché non sia chiaro se l’amministrazione rispetti le loro sentenze. Anche questo faceva parte del gioco: Trump vuole creare il massimo di confusione per nascondere a dei mass media piuttosto lenti e ingenui ciò che avviene dietro le quinte. Nel retroscena, infatti, i problemi si accumulano: solo la lista dei conflitti di interesse del presidente e dei suoi legami finanziari con paesi stranieri, basterebbe per metterlo in stato d’accusa.

Se questa tecnica di creare conflitti a ripetizione per nascondere i temi imbarazzanti vi suona familiare è perché Silvio Berlusconi l’aveva usata per anni, con dichiarazioni stravaganti («Mussolini non ha ucciso nessuno») il cui unico scopo era dominare i telegiornali della sera. Trump ha senza dubbio superato il maestro, come si conviene a chi sta nel cuore dell’impero e non nella sua periferia.

La sua tattica avrà successo, almeno per qualche tempo: la vera domanda, in queste ore, è per quanto tempo durerà il suo matrimonio di interesse con il partito repubblicano. Per il momento, la maggioranza di deputati e senatori sembra disposta a inghiottire qualsiasi rospo pur di consolidare il proprio potere controllando, con il Congresso, la presidenza e la Corte suprema: martedì sera Trump ha annunciato la propria nomina per il seggio lasciato vacante l’anno scorso e ha nominato un giudice non troppo controverso, che sarà probabilmente confermato dal senato senza troppe difficoltà.

Si ricostituirà così la maggioranza conservatrice che ha dominato la corte negli ultimi decenni e permetterà ai repubblicani di attuare il loro programma di manipolazione delle elezioni, riduzione delle tasse e cancellazione del welfare.