I colpi dei martelli risuonano sordi nel vuoto lasciato dall’ultimo bombardamento di Kramatorsk, un mugolio alle spalle rivela un’anziana che piange appoggiata alla figlia. «È troppo… troppo» ripete. Alcuni uomini lavorano per mettere in sicurezza i muri delle case ancora in piedi mentre un operaio del gas salda un tubo, di quelli gialli a vista che tracciano grandi curve in aria prima di entrare in tutte le case delle periferie dell’est post-sovietico.

In mezzo, una spianata di macerie che ha livellato almeno cinque case. Sui resti di una trave di cemento qualcuno ha messo delle foto di una madre con suo figlio, due garofani rossi tenuti insieme da un nastro nero, delle scarpe con i tacchi. Era casa loro, domenica notte sono stati estratti dalle macerie dopo che un missile di grosso calibro ha spazzato tutto via nel raggio di decine di metri. Nessun possibile obiettivo militare nelle vicinanze, solo case civili con i tetti di lamiera tra stradine sterrate.

UNA FOTOGRAFIA che racconta una storia come tante qui in Donbass. Non solo dal 24 febbraio dal 2022 ma da 10 anni ormai. Eppure Kramatorsk rispetto all’ultima volta che l’avevamo raccontata dal campo è incredibilmente più viva. Hanno riaperto diverse attività commerciali, tra le quali anche i supermercati. Il che è significativo perché vuol dire che la catena di approvvigionamento funziona come (e forse meglio) di prima. Il ristorante Ria, dove mangiavano giornalisti e militari, non c’è più. Il tetto sfondato dal bombardamento che secondo Kiev uccise almeno 15 persone e per Mosca decimò il comando militare locale. A terra un’insegna dorata con i bulbi luminosi ricorda anche quel capitolo chiuso.

«ERA BUONO EH?»: un militare che mi osservava mentre fotografo l’insegna si avvicina. È un ragazzo, strisce nere di una ragnatela tatuata gli avvolgono il collo dalla nuca fino alle mascelle. Gli chiedo se è qui in riposo. «Riposare? Magari!». Fa parte di una brigata di rinforzo arrivata da Dnipro qualche settimana fa, non dice quale. «Com’è la situazione?» chiedo. Alza le spalle e accenna un ghigno. «Ma dopo Avdiivka… » provo a insistere. «Dopo Avdiivka c’è la morte per quei bastardi». A modo suo fa capire che non vuole commentare la ritirata.

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Mentre la sua rabbia si autoalimenta però una cosa gli scappa: «Lo sappiamo che molti qui sperano che arrivino il più presto possibile così almeno la finiamo, ma non hanno capito, se avanzano troveranno qui la loro tomba». Arriva un altro militare, un orso con la barba lunga non troppo amichevole e i due se ne vanno insultando la stampa e non si capisce chi altro. Il fatto è che Kramatorsk è effettivamente l’ultima roccaforte designata del Donetsk ucraino. Da mesi qui continuano ad affluire rifornimenti e uomini perché, si diceva, se i russi dovessero sfondare troveranno qui una fortezza inespugnabile.

NON SLOVJANSK, che dista neanche un quarto d’ora, ma che è costruita in una depressione del terreno e quindi si trova in una posizione difficilmente difendibile. L’artiglieria nemica farebbe strage a ogni attacco e gli ucraini al momento non dispongono di grandi forniture di contraerea. Non Lyman, sempre a poca distanza, che malgrado la sua posizione dominante sui centri circostanti è troppo esposta a est e difficile da rifornire. Ma Kramatorsk dove ogni strada che parte dalla statale si inerpica verso il centro urbano come un pettine è protetta da trincee, postazioni di tiro e dissuasori di cemento. Ovviamente stiamo parlando dell’ultima ratio. Nell’ottica dei generali ucraini i russi non dovranno mai arrivare fino alle porte della città.

Intanto le ambulanze percorrono a sirene spiegate la statale, portano via i feriti dai centri di stabilizzazione in prima linea. Partono in sordina da Chasiv Yar, da Siversk o da Krasnogorivka, le cittadine ucraine a ridosso della linea del fronte. Di sera la strada è una lastra di ghiaccio, quando nevica come ieri è impossibile andare a più di 30 all’ora. E spesso si incontrano camion militari ribaltati o mezzi incastrati di punta nei fossi ai lati della carreggiata. Di notte, inoltre, transitano colonne di mezzi che procedono a fari spenti per non essere individuabili dal nemico. Carri armati e semoventi sui tir, obici e qualsiasi mezzo danneggiato a rimorchio. Dai tendoni cerati dei camion ogni tanto brilla qualche occhio di soldato diretto chissà dove.

Una cosa è certa: non c’è alcuna pausa sul fronte est. Ora che le indiscrezioni del fine settimana sui tentativi russi di sfondare al sud, nell’area di Zaporizhzhia, sono state confermate, è evidente che Mosca vuole approfittare di questo momento di confusione tra i difensori.

NON È ANCORA tempo della grande offensiva in forze, il clima rigido e le condizioni metereologiche non lo permettono. Ma ci si prepara. Sotto questa neve, è evidente, cova un incendio pronto a inghiottire di nuovo tutta la regione del Donbass ancora controllata dagli ucraini e forse anche le praterie a est del Dnipro. Zelensky spera nell’ «effetto Syrskyi», il nuovo Comandante in capo delle forze armate, e nell’arrivo delle forniture promesse dai Paesi europei. Putin, dal canto suo, aspetta più tronfio che mai pronto a sbandierare il prevedibile successo alle elezioni presidenziali di marzo come un plebiscito dei russi a favore della guerra. Poco importa se qualche anziana qui o altrove continua a disperarsi per un pezzo di vita strappata dalla follia della guerra.