«Dall’Iran ho camminato fino alla Turchia. E dalla Turchia ho impiegato sette giorni a piedi per arrivare in Grecia, viaggiando la notte. E solo per tre ore ci hanno permesso di usare una macchina. Da lì, sono passati altri quattro giorni per arrivare in Macedonia. Poi dalla Macedonia siamo andati in Serbia che abbiamo attraversato con un’automobile. In Bosnia abbiamo viaggiato un giorno e siamo giunti a Bihac. Da qui siamo entrati in Croazia. Altre due settimane di cammino per raggiungere la Slovenia. Ancora quattro giorni a piedi e alla fine siamo arrivati a Trieste».
Nascoste dietro i conflitti politici, gli egoismi, le forme più o meno esplicite di razzismo, la retorica di un’inclusione molto esclusiva, ci sono le parole di un migrante che con un dito mostra didascalicamente il lungo e doloroso percorso che dalla sua terra natia lo ha condotto in Italia. Quel paese che per l’ex ministra degli Interni, Luciana Lamorgese, «non è possibile che debba farsi carico da sola di migliaia di immigrati intercettati mentre entrano nei confini terrestri nord-orientali, i quali sono giunti nell’Unione europea attraverso un altro stato membro».
Presentato pochi giorni fa al Trieste Film Festival e ora in programma in alcune sale dove è previsto l’incontro con gli autori, Trieste è bella di notte di Matteo Calore, Stefano Collizzolli e Andrea Segre è un film sull’orrore quotidiano, sulle ipocrisie di un sistema che si barrica dietro la burocrazia, sulle atrocità commesse dai guardiani dei confini nei confronti di chi, semplicemente, rivendica il diritto a vivere e si ritrova coinvolto in un «gioco», nel cosiddetto game, quella sfida a percorrere la rotta balcanica per arrivare in Italia, evitando tutte le minacce di una vera e propria caccia all’uomo.
I registi hanno dato la parola ai richiedenti asilo della Casa Malala di Trieste e a chi quel viaggio lo deve ancora portare a termine. E ne viene fuori una testimonianza collettiva che dovrebbe ferire chi l’ascolta. Perché annientare le storie di esseri umani, respingendoli, senza nemmeno ascoltare la loro vicenda, è tra le vergogne di una nazione che si definisce evoluta e democratica, accogliente e tesa al rispetto dei diritti umani.

 

Nel 2020, come riporta una didascalia del documentario, l’Italia ha riammesso informalmente 1300 persone in Slovenia, rivendicandone la legittimità nonostante la richiesta di protezione internazionale. Il tutto in virtù di un accordo bilaterale tra due paesi che non è mai stato ratificato dal parlamento, spiega Silvia Albano, giudice del tribunale ordinario di Roma. Fortunatamente, un cittadino pachistano ha presentato un ricorso d’urgenza per chiedere che venisse riconosciuto il suo diritto a rientrare in Italia. «Ho ritenuto – continua Albano per motivare il ricorso accolto – che vi fossero le condizioni d’urgenza perché viveva all’addiaccio in un edificio diroccato nell’inverno bosniaco senza cibo e senza acqua, senza poter soddisfare i bisogni primari. E perché questa prassi delle riammissioni informali era illegittima da molti punti di vista».

TRA RACCONTI drammatici, denunce, omissioni, vi è anche lo spazio per una visione diversa che va oltre il baratro posto dinanzi alla nostra epoca. È uno dei migranti che è riuscito a scoprire qualcosa di diverso, a provare un sentimento oltre la paura: «Per me il momento di maggiore felicità è stato quando abbiamo attraversato il filo spinato dalla Slovenia. In quel momento dalla montagna si vedevano le luci della città nell’acqua. Vederle è stato un momento di grande felicità nella mia vita. Dal confine, dall’alto, di notte, Trieste è molto bella».