Nelle sue notevoli monografie, Giovanni Pozzi esplora con perizia le diverse possibilità combinatorie tra imago e verbum: esistono testi che incorporano elementi figurativi così come disegni che incorporano testi rivelando una subordinazione «misurabile con il fatto che se si tolgono all’una categoria i testi e all’altra le figure, nella prima le figure, nella seconda i testi diventano incomprensibili». E così come molte opere sono concepite nella dicotomia complementare di parola e immagine, ce ne sono altre in cui né il testo accompagna l’immagine né l’immagine illustra il testo.

In questo caso, ogni componente è di uguale peso e gode di un proprio e irrinunciabile spazio: parole e figure non seguono vie parallele, piuttosto si intrecciano per diventare una cosa sola, senza subordinazione né giustapposizione. È questo l’orizzonte cui appartiene Insieme vuoto (Fahrenheit 451, traduzione e cura di Anna Boccuti, pp. 216, euro 15,00 ) di Verónica Gerber Bicecci, nata nel 1981 a Città del Messico da genitori argentini in esilio. Quando Gerber Bicecci parla di sé come «un’artista visuale che scrive» intende non solo evitare di schierarsi dal lato della parola o da quello dell’immagine, perché non è in quella separazione che risiede la spiegazione dell’intreccio; ma intende anche dare spazio a quei personaggi che dopo due o tre paragrafi di scrittura reclamano altri mezzi di espressione.

Certe esperienze, scrive Boccuti nella eccellente postfazione, sono «troppo rischiose per essere dette a parole, Verónica utilizza invece linee, disegni, lingue indecifrabili simili agli esperimenti verbo-visivi». I personaggi di questo vibrante romanzo si muovono negli insiemi iconici e matematici tracciati da Gerber Bicecci con prudenza e palpabile competenza: i loro nomi, pronomi o ruoli dei sono sempre indicati sia per esteso sia con la sola lettera iniziale: Io(I), Mamma(M), Tordo(T).

La relazione parola-immagine è spesso una questione di collocazione – dov’è la scritta e dov’è l’immagine – dunque è naturale che il tema principale del romanzo sia una disputa sullo spazio vuoto: dal buco enorme lasciato dalla madre sfumata via senza lasciare ragioni per l’abbandono («Lo spazio che Mamma(M) doveva occupare era sgombro, ci aveva lasciato un pezzo di vuoto») a una scala che conduce a un piano superiore mai costruito, all’esilio come conseguenza della dittatura vissuta in Argentina dal 1976 al 1983, una deflagrazione che aveva disperso la famiglia per il mondo.

Nel romanzo, persino il tempo potrebbe contare su una superficie su cui essere disegnato – un tronco d’albero coi suoi anelli, più o meno uno per ogni anno – ma è il taglio trasversale delle assi di compensato a cancellarne la cronologia concentrica e a disordinare tutto: «Un bel giorno, senza alcun preavviso, mi sono svegliata alla fine».

Il lettore si ritroverà benevolmente disorientato e potrà esplorarne piani temporali come un contrappunto: il tempo della narrazione, spiega l’autrice, è anche compattato tra il momento prima e quello dopo in cui una tazza di caffè scivola e finisce in mille pezzi. Insieme vuoto è sorprendente: l’intellegibilità è assicurata proprio da una prospettiva inusuale sul romanzo data dal fatto che testo e immagini sono compenetrati come se fossero una cosa sola.