Visto da Cuba, l’intervento di Joe Biden in Polonia ricalca la linea politico-imperiale seguita da tutti i presidenti degli Stati uniti, almeno fin dall’Ottocento. Da quando cioè i presidenti James Monroe prima e Theodore Roosevelt poi diedero corpo di “dottrina” politica a quanto prima era sbandierato come imperativo morale: il “destino manifesto” degli Stati uniti di rappresentare il faro della democrazia per tutto il Continente americano.

Con i due presidenti diventa la dottrina che oggi potremo definire di government change: cambiare, anche con la forza, qualsiasi governo ostile o fortemente critico nei confronti di Washington, perciò stesso definito non democratico. Dottrina che poi divenne imperiale e con la globalizzazione, mondiale.

Biden ha così indirettamente risposto a quanti, come ha scritto Ferrajoli sul manifesto, ritengono che una conclusione dell’invasione russa in Ucraina possa avere fine solo con un negoziato che investa Usa e Nato (la quale include anche la Ue, vista l’assenza di politica autonoma della medesima) da una parte e Federazione russa, meglio il suo vertice autocratico, dall’altro.

E la risposta è appunto: nessuna trattativa. Per Biden Putin, «crimiale macellaio», se ne deve andare. Bisogna cambiare l’attuale regime autocratico della Russia.

Obiettivo quest’ultimo che può essere condiviso anche da gran parte dello schieramento progressista. Ma che non si può ottenere con la forza delle armi e per volontà del “destino manifesto” degli Usa.

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Non è necessario tirare in ballo von Clausewitz o Sun Tzu per affermare che trattare significa fare concessioni, anche se pesano. Significa lasciare una porta aperta all’avversario perché possa ritirarsi senza, come sappiamo essere il caso della Russia di Putin, rischiare di finire (metaforicamente o meno ) appeso a un lampione del Cremlino.

Poi, come conseguenza della ritirata negoziata si potrà appoggiare e rafforzare un movimento, che in Russia è già in piedi e non può che ingrandirsi, di opposizione all’attuale leader, il quale altrimenti si propone di tenere le briglia dell’immenso paese per più anni di quanto fu capace di fare Stalin con l’Urss.

E che come questi pretende di essere il nuovo “piccolo padre” di una nazione russa che travalica i confini della Federazione.

Vi sono infatti due modi di tradurre la parola russo. Una, Rassiyskiy, ovvero cittadino della federazione russa (Rassiya). L’altra è Russkiy, con riferimento alla civilizzazione russa (che tra l’altro nell’ XI secolo aveva come centri Kiev e Novgorod).

Nei suoi interventi per giustificare l’invasione («Operazione militare speciale») Vladimir Putin ha sempre usato il termine Russkiy. Che in anni precedenti ha imposto anche nella Costituzione della Federazione russa. Come, appunto, fosse il “piccolo padre” di una nazione più vasta della Federazione russa – la quale, tra l’altro, comprende decine di popoli non russi, ma russificati da zar e Stalin come ceceni, ingusci, abkazi, osseti, kabardino-balkari, tatari ….

Vi è una vecchia tesi compartita sia nella geopolitica statunitense (Brzezinski) sia in quella russa, che ritiene che Mosca potrà guidare un impero se domina l’Ucraina; però perderà questa guida (e l’impero) se viene meno il dominio su Kiev.

E’ su questo piano che Biden vuole giocare le sue carte, contrastando la partita imperiale dell’avversario. In mezzo l’Europa (Ue).