La neve cade leggera, è così ormai da una decina di giorni nelle regioni nord-orientali della Polonia e i bordi della carreggiata, così come la vegetazione, ne sono ricoperti.

L’orologio segna le 22 e il termometro indica zero gradi quando le luci delle telecamere si accendono, illuminando un punto vago nel folto dei rami. Attorno regnano silenzio e oscurità, rotte solo da qualche sussurro e dai fari accesi delle auto, ferme lungo una strada stretta che attraversa la foresta nei pressi di Szudzialowo.

SIAMO A CINQUE CHILOMETRI dal confine con la Bielorussia e a una quarantina da Bialystok. È il primo dicembre. A un tratto, dal bosco, tre sagome emergono dal buio più fitto e lentamente avanzano verso i giornalisti che li attendono. Hanno le mani giunte e gli sguardi bassi per riparare il viso dalla neve.

Si chiamano Ali, Hassan e Nidal, tre profughi siriani che, raccontano, per ben cinque volte sono stati respinti dalle guardie di frontiera polacche e questo li rende loro malgrado simbolo di un dramma che da mesi ormai centinaia di migranti stanno vivendo lungo il confine tra Bielorussia e Polonia.

Subito li accoglie Marysia Zlonkiewicz di Grupa Granica, realtà che in Polonia riunisce 14 ong impegnate nell’assistenza dei profughi. La volontaria gli dà il benvenuto, poi si rivolge a noi giornalisti e ci chiede di abbassare le mascherine: «Per favore mostrate il volto anche voi – dice – così possano vedervi».

Ubbidiamo ma esitiamo, nessuno sembra avere il coraggio di prendere la parola. Non è imbarazzo: forse è timore di far spendere con le nostre domande altre energie a quelle persone dagli occhi stanchi e umidi, il viso incredibilmente pallido.

Uno di loro, Nidal, non smette di tremare. Hanno stivali, giacche pesanti e cappucci a ripararli dal gelo esattamente come noi che tuttavia, pur avendo trascorso all’aperto non più di dieci minuti, avvertiamo già un certo freddo.

LA VOLONTARIA GLI SPIEGA che sono in presenza di una trentina di giornalisti internazionali e di tre deputati del Parlamento europeo, giunti per sostenere la loro richiesta d’asilo.

«In Polonia funziona così – ci spiega Zlonkiewicz – La domanda va presentata in presenza degli agenti di frontiera». Il timore, dice, è che se non vengono denunciati, rischiano di essere individuati dagli agenti o dai militari che pattugliano quest’area di confine e potrebbero venire arrestati e rinchiusi nei centri di detenzione o, peggio, respinti oltre il confine, verso la Bielorussia.

Una denuncia che da agosto è giunta da tanti profughi contro le forze di sicurezza polacche, ma che i giornalisti non hanno modo di verificare: dal 2 settembre Varsavia ha fatto scattare uno stato d’emergenza che istituisce una fascia di sicurezza profonda tre chilometri. La misura è scaduta alla mezzanotte del 30 novembre e quel pomeriggio stesso il governo aveva già adottato un decreto che di fatto lascia le restrizioni in vigore.

Ci troviamo lungo il «confine del confine», nuova frontiera a cui nessun civile ha accesso, che si tratti di media, politici o ong, compresi gli osservatori internazionali e gli operatori delle grandi organizzazioni umanitarie come l’agenzia Onu per i rifugiati (Unhcr).

Zlonkiewicz incoraggia i tre uomini, tra i 25 e i 41 anni, a raccontare la loro storia. «Siamo qui da più di 20 giorni credo, in queste condizioni è difficile contare il tempo». A parlare è Ali, che dei tre sembra l’unico ad avere una buona conoscenza dell’inglese. «In Siria ero insegnante ma ho fatto anche tanti altri lavori – continua – e se potessi ottenere asilo in Polonia sono pronto a fare ogni mestiere».

L’IMPORTANTE, RIPETE più volte il portavoce dei tre, «è che non ci rimandino verso la Bielorussia. Fortunatamente siamo sopravvissuti ma laggiù la gente sta morendo. Se ci rimandassero indietro, dubito che stavolta ce la potremmo fare».

Hassan e Nidal sono arrivati in Bielorussia attraverso l’Iran, un viaggio «pieno di pericoli. I trafficanti chiedono molto denaro e la gente glielo dà, perché è disperata. Non ha più nulla da perdere», dice Ali, che invece è arrivato in aereo a Minsk con un visto ottenuto in Siria.

Una storia che pare confermare le accuse mosse da Polonia, Lettonia e Lituania al governo di Minsk di usare i migranti per destabilizzare le frontiere esterne dell’Ue. «La gente è convinta che la Polonia accolga tutti – riporta Ali – Quando sono partito non sapevo cosa mi aspettava. Ma non avevo scelta e lo rifarei». Ali dice che i militari bielorussi li hanno portati al confine il 12 novembre.

«Pattugliano l’area lungo le frontiere con l’Europa. Abbiamo finito presto acqua e cibo e li abbiamo supplicati di farci tornare verso i centri abitati per comprarne. Ce lo hanno impedito. Ogni tanto ci prendevano e portavano in punti di raccolta con altri migranti. Altre volte ci hanno diviso. Una volta abbiamo incontrato una donna sola con la figlia di tre anni, abbiamo trascorso insieme qualche giorno. Quando ci hanno trovato ci hanno separato, sono molto preoccupato per lei». In un’altra occasione, invece, «i militari bielorussi ci hanno dato dell’acqua ma non era buona e siamo stati male».

NIDAL NON RIESCE a trattenere le lacrime quando il suo amico ricorda il giorno in cui hanno dovuto guadare un fiume sul lato bielorusso, «l’acqua ci arrivava quasi al collo. Abbiamo dovuto asciugare i vestiti vicino a un fuoco, i militari sono arrivati e ce li hanno presi per rubarci soldi e smartphone. Senza Gps ci siamo persi».

Una guardia di frontiera polacca con il passaporto di un migrante: poi le autorità negheranno ne fosse in possesso (foto di Alessandra Fabbretti/Dire)

UNA SETTIMANA FA alcuni soldati hanno tagliato con le tronchesi la rete metallica che corre lungo il confine polacco. «Ci hanno detto “sbrigatevi, entrate”. E dopo essere stati respinti cinque volte dai militari polacchi, noi siamo entrati».

Ma superare la linea di frontiera non è garanzia di successo: «Ci siamo nascosti nei boschi per sfuggire alle pattuglie», dice Ali, motivo per cui gli interventi di soccorso vengono fatti per lo più di notte, come Zlonkiewicz di Grupa Granica ci conferma. «Dormiamo nei sacchi a pelo – continua Ali – Una volta abbiamo bevuto l’acqua che si era accumulata su un telo di plastica a terra. Abbiamo mangiato resti di cibo trovato in giro: i boschi sono pieni di vestiti o altra roba abbandonata dai profughi».

Il racconto si interrompe: la volontaria decide che hanno atteso al freddo abbastanza. È ora di chiamare la polizia di frontiera, che dopo meno di venti minuti ci raggiunge. I militari chiedono ed esaminano i passaporti dei profughi.

Uno degli agenti si rivolge a Zlonkiewicz e le domanda come mai non abbiano fatto salire i profughi a bordo delle tante auto ferme lì accanto, per farli riscaldare. «Sappiamo che ospitare profughi a bordo significa rischiare una denuncia per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina», risponde la volontaria.

CHE DA QUESTE PARTI si respiri un’aria pesante è chiaro: nelle poche ore trascorse al limitare della «zona rossa» abbiamo incrociato diversi blindati: è militarizzata. Tre pattuglie hanno fermato la nostra auto. Ogni militare ha guardato all’interno dell’abitacolo o nel portabagagli per cercare forse eventuali profughi, mentre il fatto che qualcuno non indossasse la mascherina anti-Covid o la cintura di sicurezza non ha sollecitato alcuna reazione.

«La gente non può più circolare né fare scorte di cibo o vestiti – denuncia un residente che chiede si restare anonimo – Gli agenti fanno storie, ci domandano se abbiamo comprato quelle cose per darle ai profughi. Chiedono ai negozianti di allertarli in via ufficiosa se qualcuno fa acquisti sospetti, e questo comprende latte o pannolini. Chi non ha un contratto di lavoro stabile o una ragione sufficientemente valida non può accedere all’area di confine. Una donna l’altro giorno ha supplicato di poter andare a fare la spesa in un villaggio che dista due km ma che si trova all’interno della zona interdetta (ne comprende 183 in totale, ndr). Con i bambini piccoli e la neve alta, non se la sentiva di andare in un altro, che si trova invece a oltre 20 km. Poi ci sono amici o parenti che non possono più incontrarsi. Il governo sta distruggendo il tessuto economico e sociale di queste comunità».

I MILITARI che interrogano Ali, Hassan e Nidal chiedono ai volontari come mai non li abbiano avvisati prima, poi si rifiutano a più riprese di comunicare la propria identità. Solo i migranti, spiegano, hanno diritto di saperla e non i reporter e gli eurodeputati presenti che, invece, starebbero solo «intralciando le operazioni» e rischiando di «incorrere in sanzioni».

Grupa Granica chiede dove i profughi saranno portati, annuncia che seguirà l’iter legale per assicurarsi che vada a buon fine. Poco dopo sopraggiunge un altro blindato e blocca il lato opposto della strada. Mentre la tensione tra militari e presenti sale, Ali, Hassan e Nidal restano seduti a bordo della camionetta. Mostrano dei cartelli con su scritto «asylum». Finalmente, almeno per ora, sono al caldo.

NON HANNO GARANZIE di ottenere l’asilo né possono immaginare che nei giorni seguenti la Guardia di frontiera sul proprio profilo Twitter negherà che fossero in possesso dei passaporti e accuserà di «azioni illegali» chi li ha denunciati in presenza dei cronisti. Per ora, i tre sembrano solo felici di poter stare seduti per un momento.

Fuori ha ricominciato a nevicare, ma almeno stanotte dormiranno al chiuso.

*Agenzia Dire