Ieri il Sindacato autonomo di Polizia ha manifestato contro il reato di tortura, con il leader leghista Matteo Salvini e il governatore della Lombardia Roberto Maroni al seguito. Non lo sanno ma hanno manifestato anche contro il Papa e contro Ban Ki Moon.

Era il 1997 quando le Nazioni Unite decisero che il 26 giugno fosse il giorno in cui ricordare su scala universale le vittime della tortura. Dieci anni prima, ovvero il 26 giugno del 1987, entrò in vigore la Convenzione Onu contro la tortura e ogni altra forma di punizione o trattamento inumano, crudele o degradante. Sono 158 gli Stati che in giro per il mondo hanno firmato e ratificato il Trattato. Possiamo però dire che la tortura, considerata dal diritto internazionale crimine contro l’umanità, sia oggi bandita dalla comunità degli Stati?

Qui seguono due ordini di riflessioni. Il primo ordine di riflessioni riguarda quei Paesi che si sono adeguati, seppur parzialmente, ai contenuti del Trattato Onu che imponeva, tra l’altro, la previsione di un reato ad hoc nella legislazione interna a ciascuno degli Stati membri. Come sappiamo la codificazione del reato è condizione necessaria ma non sufficiente perché la tortura sia perseguita e perché non vi sia impunità per i torturatori. Non siamo così ingenui da credere che basti prevedere un reato perché la pratica di polizia si adegui e i giudici condannino.

Di pochi giorni fa sono le osservazioni del Comitato Onu contro la tortura rispetto alla Spagna, Paese che dal 1995 ha introdotto il crimine nel suo codice. Il Comitato ha sostenuto che la definizione di tortura presente nella legislazione spagnola fosse del tutto inadeguata e ha invitato le autorità iberiche ad armonizzarla rispetto al testo Onu.

All’articolo 1 della Convenzione si definisce la tortura. Devono ricorrere i seguenti requisiti: l’autore deve essere un pubblico ufficiale, deve esserci violenza o minaccia, deve essere prodotta sofferenza fisica o psichica, deve esservi l’intenzione di estorcere una confessione o di umiliare. Va altresì ricordato che lo Statuto della Corte Penale Internazionale abilitata a giudicare i gravi crimini contro l’umanità – tortura, genocidio, crimini di guerra – ha una definizione meno cogente. In ogni caso è questo il solco entro cui lo Stato deve muoversi. La Spagna non l’ha fatto.

Il secondo ordine di riflessioni riguarda invece quei Paesi che non si sono adeguati per nulla ai contenuti del Trattato. L’Italia è in prima linea tra questi. La tortura da noi non è un reato, come ci ha ricordato la Corte Europea sui diritti umani lo scorso 7 aprile condannando il nostro Paese nel caso Cestaro a causa delle brutalità commesse dalla Polizia nella scuola Diaz nel 2001. Pochi giorni fa il ministro Alfano in un convegno pubblico ha affermato: «Il reato non sia contro la Polizia». Il reato di tortura è essenziale per una Polizia moderna; aiuta a distinguere chi svolge il proprio compito correttamente da chi invece fa un uso brutale della forza.

La contrarietà delle forze dell’ordine è ingiustificabile se non adducendo tesi oltranziste. Il ddl per l’introduzione del delitto nel codice pende in commissione Giustizia al Senato. È vittima di un ping pong parlamentare già troppe volte visto in passato. Tra il 16 e il 22 settembre il Sotto-Comitato Onu contro la tortura visiterà i luoghi di privazione della libertà in Italia. È la prima volta che gli ispettori Onu entreranno nelle nostre caserme, nei nostri Cie, nelle nostre prigioni. Subito dopo si recheranno in Turchia. L’Italia è tra i 78 Paesi che si è resa disponibile a farsi visitare. Per allora sarebbe essenziale che da un lato ci fosse il reato nel codice, dall’altro fosse nominato il Garante delle persone private della libertà. La legge c’è, il Garante non ancora.

Per questo ci rivolgiamo direttamente a Matteo Renzi, il quale nei giorni successivi alla sentenza europea nel caso Diaz aveva detto che «la nostra risposta è il reato di tortura». La palla è nel suo campo. Vanno neutralizzate le obiezioni del partito di Giovanardi e Alfano. Il ministro della Giustizia Orlando, in occasione del dibattito alla Camera dello scorso aprile, aveva auspicato invece un voto ampio e condiviso. Una posizione importante che ora deve trovare conferma al Senato. Spetta al premier spingere in questa direzione, anziché in quella di retroguardia del ministro degli Interni, del Sap e di Salvini.

*presidente Antigone