Ai canali russi di Telegram sarebbe meglio accostarsi con cautela, soprattutto quando promettono un filo diretto con le stanze del potere. Si tratta, nel migliore dei casi, di informazioni che nessuno sarà mai in grado di confermare o di smentire; nel peggiore, dei desideri oppure dei piani di chi quei canali li gestisce. C’è, però, una cosa che questo strumento, sicuramente il più usato in Russia per commentare la guerra nonostante il blocco imposto dalle autorità nel 2020, permette di registrare con efficacia: lo stato d’animo nei confronti di quella che il presidente, Vladimir Putin, continua a definire «operazione speciale». Da giorni i canali più seguiti rilanciano con insistenza i commenti di Igor Girkin, l’uomo che nel 2014 prima ha guidato l’annessione della Crimea, e poi ha organizzato una forza militare a Donetsk e Lugansk. Colpito da sanzioni e inseguito da mandati di cattura, Girkin è scomparso dalla scena pubblica dopo la strage del volo MH17, in cui persero la vita a 298 civili innocenti, di cui ha ammesso la «responsabilità morale».

Che il suo nome torni oggi in voga negli ambienti conservatori dipende da un dato singolare. Girkin, 52 anni, oltre la metà passati nei servizi segreti, conosciuto con il nome di battaglia Strelkov, ovvero «tiratore», per il periodo in servizio in Cecenia, è un enorme pessimista, al punto da essere chiamato ironicamente «il signore dell’Apocalisse». Da settimane metteva in guardia sulla possibilità di una offensiva nel settore di Kharkiv, a ridosso del confine russo, e quell’offensiva è puntualmente avvenuta. In cinque giorni gli ucraini hanno ripreso cinquecento chilometri quadrati di territorio, compreso il centro strategico di Izyum.

Con Girkin/Strelkov al comando delle truppe, si legge sempre più spesso, probabilmente l’attacco sarebbe stato respinto. Il che mette in evidenza anche la profonda sfiducia che circonda in questa fase la catena di comando delle forze armate. Putin ha rimandato ufficialmente ieri l’annuncio che un numero elevato di osservatori attendeva, ovvero la mobilitazione generale attraverso lo stato di guerra. Per il momento sembra deciso a evitare cambiamenti troppo forti. Bisogna, però, ricordare che dal 24 febbraio è diventato ogni giorno più difficile individuare un nesso fra la realtà dei fatti e le azioni che il Cremlino ha intrapreso.

La crisi, fanno sapere da Mosca, sarà al centro di colloqui ««dettagliati» con il presidente cinese, Xi Jinping. I due si vedranno domani e dopodomani a Samarcanda, in Uzbekistan. È possibile che Putin sia frenato da un fattore sempre più significativo negli equilibri di guerra: la presenza crescente sul terreno degli Stati Uniti e della Gran Bretagna in termini di intelligence.

Il New York Times ha dedicato due lunghi pezzi in tre giorni al ruolo che gli strateghi americani e britannici hanno avuto nella conquista di Izyum e nella conseguente rotta dell’esercito russo. Nel secondo, pubblicato ieri, citano il nuovo attaché militare dell’ambasciata Usa a Kiev, il generale Garrick Harmon, che prima di assumere l’incarico era responsabile al Pentagono delle forniture militari ai paesi stranieri. Sulla carta non esiste uomo migliore per gestire i quattordici miliardi e mezzo di dollari in aiuti all’esercito ucraino che la Casa Bianca ha approvato dallo scorso febbraio. Harmon e altri specialisti hanno convinto gli ucraini a mettere da parte il piano di un attacco a sud, nella regione di Kherson, e hanno offerto elementi decisivi per pianificare l’attacco a nord, fra Kherson e Lugansk. Del loro ruolo gli americani accettano a questo punto di parlare apertamente. Il confronto con la Nato di cui i propagandisti russi parlano da mesi ora è realistico. Per Putin non è una buona notizia.

Occorre notare che a partire proprio dallo scorso fine settimana sono ripresi i colloqui con i leader europei, in particolare con il presidente francese, Emmanuel Macron, e con il cancelliere Tedesco, Olaf Scholz. I confini della Russia bruciano. Non c’è soltanto il conflitto in Ucraina, in cui Putin è direttamente coinvolto, ma anche quello nel Caucaso fra Armenia e Azerbaigian, che Putin deve cercare di spegnere il prima possibile per non rimanere coinvolto.