Appena passato il confine con la Croazia, il profilo del paesaggio viene cambiato dai minareti slanciati ed appuntiti che svettano dalle moschee collocate in cima alle colline, ricordandoti che la Federazione della Bosnia Erzegovina è un avamposto musulmano nel cuore dell’Europa. La sua estremità nordoccidentale ripiega dentro la Croazia, condividendo così un lungo tratto di confine. Ed è in questa regione che si interrompono i sogni di molte delle persone provenienti dal Medioriente e dall’Asia centro meridionale, che hanno scelto la rotta balcanica per lasciarsi alle spalle guerre, violenze e miseria: speranze che si sfracellano contro il muro di vergognosa indifferenza eretto dalle politiche migratorie scelte dall’Unione europea. Fra queste l’accordo siglato nel 2016 con il presidente Recep Tayyip Erdogan, scritturato come guardiano in cambio di soldi e visti per i cittadini turchi; risultato, milioni di profughi intrappolati in Paesi come la Turchia, dove hanno raggiunto ormai i 4 milioni, poi a decine di migliaia in Grecia ed altre migliaia nei Balcani.

IN SEGUITO alla chiusura dell’Ungheria nel 2018, la Bosnia Erzegovina si è vista particolarmente attraversata da questi flussi di cittadini afghani, pakistani, iracheni, ma anche marocchini, tunisini, algerini, che respinti dall’Europa, si sono andati accumulando in un Paese del tutto impreparato ad affrontare una situazione del genere.

POCHE SETTIMANE fa l’incendio del campo profughi di Lipa, a 30 km dalla città di Bihaç, nel cantone di Una Sana, ha lasciato 1500 persone senza un riparo nel gelido e nevoso inverno balcanico ha portato alla luce un disastro in corso da tempo. Il campo di Lipa è il simbolo dell’inadeguatezza delle strutture di accoglienza e della mancanza di volontà da parte delle autorità bosniache di gestire la patata sempre più bollente dei profughi respinti. Ancora prima di andare a fuoco la situazione del campo erano inaccettabili: Lipa era una tendopoli provvisoria creata nell’aprile 2020 in risposta all’emergenza Covid: priva di allacci elettrici ed idrici, totalmente inadeguata per trascorrervi l’inverno e sovraffollata a causa della chiusura di altri centri e dell’intensità dei transiti: la catastrofe umanitaria che si è verificata era ampiamente prevedibile. I suoi segni ora marcano il territorio di Bhiac e uno di questi è la Factory.

Un migrante si procura dell’acqua, vicino Bihac, in Bosnia, foto di AP Photo/Kemal Softic

QUESTA EX FABBRICA abbandonata era già utilizzata come alloggio dai migranti che non trovavano posto nei centri di accoglienza. È costituito da una serie di edifici sventrati, senza porte, senza finestre, costellato di immondizia e detriti; la neve anziché addolcirlo, lo rende ancora più lugubre. A un occhio estraneo sembra deserto: non si vede nessuno, i panni appesi sulle piante rinsecchite o che spuntano dalle aperture sembrano stracci trasportati dal vento. Man mano che si avanza verso gli edifici appaiono le prime persone che intabarrate in strati e strati di vestiti sembrano dei fantasmi. Il primo che si avvicina è un ragazzo di cui si vedono solo dei grandi occhi azzurri che spuntano tra sciarpone e berretto. Ha un fare tranquillo e risponde volentieri alle domande.

IL SUO NOME È SHAHID e viene dal Pakistan: ha lasciato il suo paese per paura dei talebani; è alla Factory da 5 mesi , prima stava a Lipa ma se ne è andato perché la’ faceva troppo freddo. Lui e il suo amico Usman, un gigante dallo sguardo mite che nel frattempo lo ha raggiunto, vogliono andare in Italia: ci hanno già provato tre volte e sono sempre stati respinti: due volte dalla Croazia e una volta dalla Slovenia. Usman, timido e imbarazzato per il suo inglese stentoreo, aggiunge che in uno di questi tentativi la polizia croata li ha picchiati e derubati di scarpe, vestiti, soldi e cellulari, per poi abbandonarli a più di 100 km di distanza da Bhiaç, dove sono dovuti tornare a piedi. Un racconto comune a molti migranti.

Dei migranti si riscaldano le mani fuori dal campo di Bihac, in Bosnia, foto di AP Photo/Kemal Softic

SHAHID entra in uno degli alloggi di fortuna che sono stati ricavati nella Factory, dove 3 ragazzi avvolti nelle coperte si stanno riscaldando e cucinando del riso con una stufa rudimentale, un bidone da dove esce un fumo nerissimo che solo in parte viene buttato fuori da un tubo sistemato alla bell’è meglio, il resto rimane nella stanza e rende l’aria irrespirabile. Nella cortina di fumo si intravedono altri 5 o 6 ragazzi sdraiati a terra infilati nei sacchi a pelo. Sono tutti afghani. Uno di loro grida «Italia no good, Italia deport!»: fa parte di un gruppo di 6 persone appena tornate dopo essere state respinte proprio dall’Italia, a Trieste, senza una spiegazione, senza una domanda. Consegnati alla polizia croata che li ha scaricati nuovamente in Bosnia. Al piano di sopra c’è un altra di queste 6 persone, un ragazzo di soli 17 anni molto agitato che si alza in piedi «Perché ci rimandate indietro?» continua a chiedere. «Perché ci prendete le impronte digitali e poi ci mandate via? Cosa ho fatto di male? Io non voglio tornare in Afghanistan, sono giovane e voglio solo lavorare».

PARLA del «game», il termine che usano tutti per indicare il tentativo di passare i confini attraversando montagne e boschi camminando decine e decine di giorni, dormendo all’addiaccio. Le storie si moltiplicano, chi vuole andare in Italia, chi in Francia, chi in Germania, chi non lo sa, chi ha già parenti o amici in Europa e chi no: il denominatore comune è il voler andare a tutti costi, senza tornare indietro. C’è chi ha provato il game otto, dieci , anche 20 volte e continuerà a farlo. Qualcuno, in queste condizioni umanamente degradanti, ci vive da anni. Spunta anche un ragazzino, ha dieci anni e si è messo in viaggio con lo zio quasi un anno fa. Tutte queste storie a un certo punto si mettono una dopo l’altra in una fila ordinata: è arrivato un carico di aiuti.

LA MISSIONE Solidarity Action è partita da Padova il giorno prima ed è al suo terzo viaggio: i ragazzi infatti li aspettano, sanno che gli stanno portando i vestiti raccolti in Italia, il cibo comprato nel vicino supermercato. La distribuzione per circa una sessantina di persone avviene in maniera estremamente organizzata e rapida: dovesse arrivare la polizia sarebbero problemi, perché le autorità locali hanno proibito questo genere di aiuto.

Un uomo si lava i piedi durante una tempesta di neve al campo di Lipa, fuori da Bihac, in Bosnia foto di AP Photo/Kemal Softic

IN QUESTO TERZO GIRO i volontari italiani si sono portati anche un dottore: le visite si svolgono prevalentemente all’aperto, perché negli alloggi non c’è luce e l’aria è tossica; il primo ad essere visitato è un ragazzo magrissimo che parla e si muove a fatica: ha una brutta ferita sul petto, la notte precedente ha vomitato sangue. Altri ragazzi si presentano con ferite soprattutto ai piedi dovute ai lunghi cammini con scarpe inadeguate , alcune sono infette e mal curate; vengono riscontrati diversi casi di scabbia e altri tipi di infezione della pelle. Un paio di ragazzi non riescono a uscire, hanno la febbre e sono itterici. Il medico in quelle condizioni non può fare molto: disinfetta le ferite, cambia le medicazioni, somministra qualche tachipirina, consiglia di tentare di andare in ospedale. Anche le visite vanno fatte velocemente: qualche giorno prima un medico tedesco che stava prestando assistenza in forma volontaria è stato fermato e cacciato dal Paese.

A RICORDARE che la situazione è molto tesa ci sono anche gli striscioni con la scritta «No camp» che si vedono fuori dalla Factory, alcuni di essi sono presidiati da gruppi di persone. Ma nessuno degli abitanti della Factory parla male dei bosniaci, anzi: dicono che li aiutano come possono. Nella maggior parte di loro non c’è rabbia: mostrano allegria, alcuni una straziante dolcezza: come Safi, che ha 18 anni e si dà da fare per tradurre e far avvenire la distribuzione in maniera equa: era un volontario anche a Lipa, dove è rimasto 14 mesi e se ne è andato dopo l’incendio. Oppure Ali, che sorride sempre, parla speditamente 5 lingue e ti racconta le storie di chi non può farlo. In questo piccolo pezzo di inferno l’umanità non si è persa: lo è semmai fra gli scranni d’Europa.