Tutti fanno più o meno finta di niente, e di certo lo stop di ieri è stato un passaggio importante, ma la questione del terzo mandato appare destinata a ripresentarsi ancora in futuro. Anche perché gli interessati sono tutt’altro che nani del panorama politico. Sono, infatti, i governatori regionali eletti con il maggior numero di consensi tra tutti quanti e che l’anno prossimo andranno in scadenza tra gennaio e settembre. Gente che è meglio non far innervosire, perché in grado di azzoppare ogni piano che non li coinvolga. Gente del calibro di Luca Zaia, che per la verità è già al suo terzo mandato, e che in Veneto è abituato a vincere le elezioni con percentuali da Patto di Varsavia: l’ultima volta è volato sopra il 76%, per dire. È nel suo nome – e per la paura di Salvini di ritrovarselo disoccupato e pronto a contendergli la leadership del partito – che la Lega ha fatto le barricate sul suo emendamento fino al punto di farsi votare contro dagli alleati. Oltre alle eventuali aspirazioni nazionali, Zaia non appare intenzionato a lasciar decidere altrove quel che dovrà accadere in Veneto. In altre parole, una candidatura di FdI alla presidenza la vivrebbe come un torto, e allora è già pronto un piano B che avrebbe effetti deflagranti: una lista (o una coalizione) da lui patrocinata – e magari con lui candidato al consiglio – con un suo fedelissimo a capo, come il sindaco di Treviso Mario Conte o il deputato (e segretario della Liga Veneta) Alberto Stefani.

IN LIGURIA, per restare a destra, il terzo mandato interesserebbe a Giovanni Toti, che per ora continua a evitare il discorso e a far presente che, almeno a suo parere, ogni regione può decidere da sé il numero di candidature possibili, se due, tre, quattro o quarantaquattro. Non esistono ancora pareri tecnici, ma qualche dubbio sulla sussistenza di questa possibilità è lecito avanzarla. E poi, in un contesto più generale, Toti è un esponente della minuscola quarta gamba della destra di governo, quei Noi moderati che non valgono l’1%, e questo lo rende un mirabile esempio di vaso di coccio in mezzo ai vasi di ferro. Il centrosinistra, dal canto suo, ha tre problemi. In ordine di pericolosità: Vincenzo De Luca, Michele Emiliano e Stefano Bonaccini.

IL PRIMO, che dalla Campania sta guidando la (presunta) rivolta degli amministratori meridionali contro l’autonomia differenziata, oltre al consenso di cui certamente gode sul territorio, si fa notare per il suo eloquio sopra le righe e le sue molteplici sparate. Un modo di fareche lo ha reso una stella sui social network ma che non lo salva dall’ostilità conclamata dei seguaci della segretaria Elly Schlein, che lo vorrebbero fuori dai giochi una volta per tutte. Lui a farsi da parte non ci pensa neanche un po’ e appare molto difficile che farà passare liscia ogni ipotesi di sostituirlo con qualcun altro. Emiliano, dalla sua Puglia, lancia segnali intermittenti: dice che un terzo mandato per lui sarebbe «faticoso», poi aggiunge che però potrebbe pensare di ricandidarsi a sindaco di Bari (e anche lì sarebbe la terza volta, sia pure non consecutiva e dunque legittima), poi ancora dice di non voler correre alle europee («Devo finire il mio mandato, è una questione di sovranità») e infine aggiunge che la Costituzione non pone limiti alle ricandidature, quindi chissà. E attenti a non farlo arrabbiare perché, sottolinea, «ho preso 110.000 voti più della coalizione che mi sosteneva». Chiaro, no? Bonaccini è il più prudente del lotto: sconfitto alle primarie da Schelin un anno fa, ha sempre evitato ogni scontro diretto e si è deciso a interpretare la parte del vero uomo di partito, che fa il suo senza piantare grane. La segretaria lo vorrebbe candidare alle elezioni europee e lui non ha risposto sì, ma neanche no. E allora? Il terzo mandato lo gradirebbe assai, ma un’altra strada c’è comunque: candidare alla presidenza dell’Emilia Romagna l’ex sindaco di Bologna Virginio Merola, ora al Senato, e poi presentarsi alle suppletive.

DA NOTARE, in questo quadro, la targa dei coinvolti: uno della Lega, uno di Noi Moderati e tre del Pd. Manca il M5s – che tuttavia sulle regionali non ha mai puntato granché – e manca soprattutto Fratelli d’Italia, cioè il principale partito di governo, proprietario della stragrande maggioranza dei consensi della coalizione di destra. Nessuno, proprio nessuno, può pensare in buona fede che Giorgia Meloni deciderà di osservare da spettatrice le regionali dell’anno prossimo. Un motivo bello grosso per fare le barricate contro ogni ipotesi di terzo mandato.