Perché un comico di fama si sente in dovere di dire che del politicamente corretto non se ne può più? Dovrebbe sapere che il giorno dopo tutti titoleranno «Il comico X fa a pezzi il politicamente corretto» (Secolo d’Italia) o «Il politicamente corretto uccide la comicità» (Repubblica).

Da lì le sue parole si diffonderanno nei talk, sui social, dove un appello contro la «dittatura del politicamente corretto» gode quasi sempre di buona accoglienza. Anzi, cattiva. A volte torva: ex maggioranze oppresse, maschi di mezza età, raccontatori di barzellette da bar, abitanti scureggioni del mondo al contrario pronti a chiosare, amplificare, rilanciare, pavoneggiarsi nei mille rivoli dei commenti.

In questi algoritmi la destra ci sguazza. Lo fa da anni in mezzo mondo nella forma trumpiana e diffusa della alt-right, o in quella un tantino grottesca delle guerra culturali di casa nostra. Il politicamente corretto e la cancel culture sono entrati da tempo nel repertorio del ministro Sangiuliano, di Giorgia Meloni, nei titoli civetta di Libero e del Giornale. L’astio contro il Woke è sempre nelle elucubrazioni di quelli del Foglio, reazionari che hanno studiato l’inglese.

Tornando a noi, se Corrado Guzzanti vent’anni fa era il comico più amato dalla sinistra diffusa in questo Paese, i suoi personaggi tra i più rimpianti ancor oggi, e in un’intervista a Repubblica se la prende col politicamente corretto, un po’ ci dovrebbero girare le scatole.

Perché lo fa? Carlo Verdone ne aveva discusso senza gran convinzione durante le interviste promozionali per la sua ultima serie, in difesa di Alberto Sordi e della vecchia commedia. Checco Zalone ce l’aveva con la psicosi del politicamente corretto. Pio e Amedeo e Jerry Calà, nelle interviste e negli spettacoli tirano spesso fuori la solfa del «non si può più dire niente», nella speranza che strizzare l’occhio all’opinione di destra li faccia essere più comici.

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Per un comico in là con la carriera prendersela con il politicamente corretto è un grido di solitudine, un segnale di crisi. Invece di affrontarlo ad armi pari sul terreno del comico («Tutti sappiamo realmente cosa si può fare e non si può dire», aggiunge Guzzanti nella stessa intervista) si cerca una complicità preliminare col pubblico che verrà agli spettacoli, e parteciperà a un atto di resistenza confermato dagli applausi e dalle risate.

Su Netflix è in onda in questi giorni lo spettacolo di Ricky Gervais, Armageddon. Gervais è uno dei comici più popolari al mondo, protagonista di stand-up e serie tv, appena premiato con un Golden Globe. Da qualche anno i suoi spettacoli hanno un solo bersaglio: il politicamente corretto. Sessantaduenne, ex working class di provincia, maschio bianco con un filo di pancetta, ama presentarsi sul palco come comico perseguitato, vittima di associazioni e club di suscettibili che ce l’hanno con le sue battute su trans, bambini malati, Aids, pedofili, ecc.

Detta così non si capisce bene. Gli stand up dell’attore sono tutt’ora uno dei programmi più importanti di Netflix. Il loro meccanismo è scoperto e al ribasso: Antifascismo e ebrei, handicappati o disabili, immigrati sotto i camion a Dover, Greta Thumberg, ecologia, cinesi. Debbono essere battute sgradite ai woke.

Gervais ride moltissimo alle sue battute. Non è un buon segno. Il suo spettacolo è punteggiato da spiegoni. Quando avverte il pubblico che in scena sta recitando un personaggio, il quale potrebbe non essere necessariamente d’accordo con quelle stesse battute, aggiunge l’esempio di Hannibal Lecter e Anthony Hopkins: «Non penserete mica che Hopkins mangi davvero carne umana!».

L’esempio, come si dice oggi, sblocca un ricordo. Tutti ricordiamo Corrado Guzzanti come vittima vera di leghisti e berlusconiani ai tempi del suo Bossi/Hannibal Lecter e del Tremonti impazzito dopo i quali sparì sostanzialmente dalla Rai, e con lui furono inabissati i programmi comici di quella lontana stagione. Non era colpa del politicamente corretto. Era il politicamente e basta.

Perché mai Guzzanti dovrebbe offrire oggi un assist agli eredi dei cattivi di allora?

Per la destra, la polemica contro il politicamente corretto è uno degli ombrelli più disponibili e meglio adattabili nella strada verso l’egemonia culturale. Comprende quasi tutto: l’immigrazione e il femminismo, il linguaggio e la buona educazione, l’inclusività e l’accoglienza. Tutte le parole che fanno venire l’itterizia al sottofascismo diffuso e che, ahinoi, qualche volta sollecitano vecchi automatismi di sinistra, contraddizioni principali e secondarie, diritti versus lotta di classe.

La verità è che il politicamente corretto è un fantasma. Nessuno sa esattamente dove sia, in che modo nasca e si manifesti, quale sia la sua reale efficacia. Le vittime di politicamente corretto, fateci caso, parlano quasi sempre dal centro esatto della scena mediatica.

L’unica vera vittima della cancel culture e del politicamente corretto in questo periodo rischia di essere Chiara Ferragni, ripagata con la stessa moneta dalla volatilità degli algoritmi che danno la fama e la tolgono. Perché i meccanismi coi quali l’opinione pubblica si riproduce possono fare davvero paura.

Anche di questo giudizio di dio la destra si è appropriata con poche paroline chiare di Giorgia Meloni, senza prendersela con nessun fantasma, facendo passare nell’opinione comune l’idea che la sinistra difenda Chiara Ferragni. Perfetto.