«Dal 2015 i bombardamenti in Yemen hanno ucciso decine di migliaia di persone e devastato il paese. L’Onu parla della più grande crisi umanitaria sulla Terra». Il 25 gennaio era la giornata mondiale contro la guerra in Yemen: «La metà della popolazione del paese è sull’orlo della carestia, il paese è al collasso», si legge sui comunicati stampa delle reti e associazioni che cercano di dare visibilità alla catastrofe.

GHANYA, QUANDO le leggo alcuni passaggi, s’irrigidisce: «È grave e irritante questa retorica. Intendiamoci: sono grata a chi anche in Italia lotta per il mio popolo, ma il mio Paese non è povero, è impoverito. La nostra terra ha petrolio, pesca, agricoltura, cultura. Essere descritti come affamati è umiliante. Non abbiamo bisogno di carità. Ma di giustizia».

Ghanya Al-Naqeb è agronoma e attualmente ricercatrice presso il Centro Agricoltura, Alimentazione e Ambiente dell’Università di Trento grazie all’appoggio di Scholars At Risk (Sar), una rete internazionale di università fondata nel 1999 a Chicago per promuovere la libertà accademica e proteggere studiosi in pericolo.

DA UN PAIO D’ANNI si è formata una sezione italiana che comprende oggi 28 membri. Oltre all’Università di Trento, anche quella di Padova, Milano con la Statale, Roma con La Sapienza, S. Anna e la Normale di Pisa hanno aperto borse di ricerca per studiose e studiosi a rischio.

Ghanya Al-Naqeb

«Una partecipazione ancora iniziale ma fondamentale – ci spiega Ester Gallo, docente di antropologia alla facoltà di Sociologia di Trento, che ci ha fatto incontrare Ghanya e che l’accompagna nel suo percorso – Insieme al professor Marco Ciolli, suo mentore accademico, e ai colleghi dell’Università di Trento siamo riusciti ad accogliere lei e un altro collega minacciato (di cui per ragioni di sicurezza non possiamo indicare né nome, né provenienza, ndr) attraverso il bando di Sar, che per Trento, con l’appoggio anche della provincia, prevede un assegno di 30mila euro. Sarebbe importante che il progetto venisse supportato a livello nazionale, anche attraverso la partecipazione di Miur e Maeci, sul modello di quanto avviene in altre realtà europee come Germania e Francia. Sempre più docenti nel mondo fanno richieste: l’anno scorso Sar Internazionale ha ricevuto 600 richieste di protezione, molte le donne. I docenti accettati possono avere borse per uno o due anni, ma poi sono di nuovo abbandonati al loro destino».

Ester, anch’essa fuggita dalla Turchia con il marito all’indomani del tentato colpo di stato, è referente di Sar Italia con Claudia Padovani e Francesca Helm, dell’Università di Padova.

«DUNQUE È PER QUESTO che sei diventata agronoma – chiediamo a Ghanya – Per fare la tua parte per lo Yemen?». «L’agricoltura in Yemen è importante, ma il settore agricolo è devastato. Dalla guerra, ma anche dalla coltivazione intensiva di qat, una pianta originaria dell’Etiopia e dagli effetti moderatamente stupefacenti. Tutti la usano, ma è un problema per la terra. Avremmo grandi potenzialità, ho studiato per poter trovare soluzioni per combattere la fame».

La osserviamo mentre ci racconta la sua vita di scienziata; è minuta e forte, sorride, ride. Emana un’energia speciale, lo sa, e cerca di metterci a nostro agio mentre mette in ordine i ricordi, per allontanare quelle immagini di sole macerie che da noi sono la principale narrazione dello Yemen in guerra.

«È stata dura, come donna, poter studiare e specializzarsi?», le chiediamo. «Sono cresciuta in campagna, nel nord del paese, con quattro sorelle e tre fratelli. La maggior parte delle persone nelle campagne erano povere, non ci sono scuole o medici. Nel sud era diverso, era controllato dagli inglesi, più moderni. Nel nord c’erano gli imam. Ma mio padre ha creduto in me. Sono stata la sesta miglior studentessa del paese, ho vinto una borsa di studio per studiare Food Science all’Università di Damasco. Ci sono rimasta cinque anni. Sono stata la prima ragazza del mio villaggio ad andare all’estero e ho lavorato in Germania, Stati uniti e Malesia prima di venire in Italia. Ma vorrei che capiste che le donne yemenite sono abituate a essere responsabilizzate. La nostra cultura, la nostra storia, racconta di donne forti. Ed anche ora, con la guerra, facciamo la nostra parte».

GHANYA, NONOSTANTE lo strazio della guerra – 100mila morti, tre milioni di sfollati interni – si sforza molto di rovesciare la narrazione (tossica, la definisce) sul suo paese. Quando torna in Yemen inizia a lavorare all’Università di Sana’a come assistente ricercatrice, collaborando anche con la Fao in progetti sull’alimentazione.

Apre un suo laboratorio di ricerca, è supervisore di un corso di studi: «All’inizio avevo solo studenti maschi. Ma dopo il mio dottorato in nutrizione, tre quarti dei miei studenti erano ragazze. Forse è per la materia: le ragazze non vogliono studiare agricoltura perché credono che sia una per uomini, ma con nutrizione è diverso. Credo che essere un’insegnante donna sia un grande incoraggiamento. Ho potuto aiutare molte mie studentesse a trovare un lavoro con un buono stipendio. La mia presenza nel dipartimento era positiva, ero l’unica dottorata donna. Ho cominciato a sentirmi sistemata, felice. Poi è scoppiata la guerra e tutto è cambiato».

GHANYA PERDE IL LAVORO, suo marito fa parte di una famiglia di oppositori al regime. Sono minacciati. Devono scappare. Sar Germania dà l’opportunità a Ghanya di avere un assegno di ricerca in Germania: «Mi immaginavo Berlino, o Francoforte. Sono capitata in Baviera (scoppia a ridere), ma ci siamo trovati molto bene». Scadono i visti e gli assegni, tornano fugacemente in Yemen attraverso l’Egitto per rinnovare i documenti, e lì il marito di Ghanya viene bloccato.

Di nuovo fuggono in Europa e Ghanya inizia la sua nuova vita a Trento: «Mio marito è ancora in Egitto, speriamo di farlo arrivare qui a breve». Ci fa vedere alcune foto di casa sua, di lei, mentre è in laboratorio, con le sue studentesse, una nuvola di veli neri e niqab alle sue spalle, mentre lei ha il volto scoperto.

Le chiediamo se l’avvento di Joe Biden alla Casa bianca modifichi la sua percezione del conflitto: «Sui social media le persone (in Yemen) mi pare siano generalmente felici dell’elezione di Biden: Trump aveva inserito lo Yemen nella blacklist e ora gli yemeniti pare possano di nuovo ottenere il visto e poter lavorare (in nero), pensando sia come un paradiso. Questo è il pensiero generale, ma io non credo che con Biden le cose miglioreranno, perché il problema è politico. Biden vuole il meglio per gli americani, non per gli yemeniti».

INTANTO È IN SCADENZA la risoluzione che proroga la sospensione delle armi italiane in Yemen, ma la Commissione esteri della Camera ha approvato la sua proroga. E tra qualche tempo – 18 mesi – Ghanya non avrà più l’assegno di Scholars At Risk. «Se torno in Yemen probabilmente non sopravviverò, perché non posso tacere e nemmeno mio marito. Ma per ora sono qui, sto bene, voglio imparare l’italiano, lotto per il mio popolo a distanza. Poi si vedrà».

(Traduzione di Stefano Filippini)