Appassionato «cacciatore», com’è noto, di libri e giocattoli, Walter Benjamin scrisse che il vero collezionista abita nelle cose che possiede; con gli oggetti che accumula non può fare a meno di erigere vere e proprie dimore in cui ama sprofondare, fino a scomparire. Quest’atmosfera privata e domestica emerge con evidenza nella collezione di arte russa e sovietica che Laura e Giuseppe Boffa raccolsero a partire dagli anni sessanta nel corso dei loro ripetuti soggiorni a Mosca, grazie ai rapporti coltivati con gli esponenti dell’intelligencija progressista, nonché con gli artisti stessi. Opere di qualità spesso museale e acquisite in modo spontaneo che nel loro insieme riflettono la scoperta graduale di un orizzonte nuovo: quello di un’arte segnata dal fermento del cosiddetto «disgelo».
È questa la prospettiva documentata dal catalogo Piccola Russia, appena uscito per l’editore Maretti (pp. 112, euro 20) che, oltre a presentare la collezione dei coniugi Boffa, dà anche conto della loro «adesione culturale, politica e perfino sentimentale alle vicende della Russia post-rivoluzionaria», scrive il figlio Massimo nella sua prefazione. Un’avventura iniziata nel 1953, a qualche mese di distanza dalla morte di Stalin, allorché l’«Unità» decise di aprire un ufficio di corrispondenza a Mosca.

ENTRAMBI COMUNISTI e provenienti dall’esperienza della lotta partigiana, Laura e Giuseppe approdano nella capitale sovietica con una missione precisa: raccontare ai lettori italiani – lui da corrispondente del giornale fondato da Antonio Gramsci, lei come collaboratrice di «Noi donne» – una realtà che all’epoca non poteva essere che in trasformazione. A introdurli nelle cerchie intellettuali moscovite furono anzitutto le sorelle Carolina e Ornella Misiano, figlie dell’espatriato comunista (e pioniere della produzione cinematografica in Urss) Francesco, ma anche il fisico Bruno Pontecorvo.
Se la Russia dei Boffa si rivelerà «piccola» in quanto legata a una dimensione privata e affettiva, di certo non lo sarà la levatura dei personaggi da loro frequentati. Nel corso di due lunghe permanenze (1953-1958 e 1962-1964) i coniugi stringeranno infatti rapporti duraturi con lo scrittore Il’ja Erenburg, inventore tra l’altro del termine «disgelo», e Lili Brik, l’«unica moscovita elegante» a detta di Yves Saint-Laurent, di cui Laura nel 1969 tradurrà per le edizioni Sugar il carteggio con Vladimir Majakovskij. Tali contatti saranno il viatico che aprirà loro le porte degli atelier. In assenza di un mercato vero e proprio dell’arte, le amicizie personali erano l’unico modo per giungere alle opere di pittori invisi al regime come Oskar Rabin, Lidija Masterkova, Vladimir Nemuchin o Oleg Tselkov, che gravitavano nell’underground.

RISPETTO AD ALTRE collezioni più vaste ed eclettiche, come quella di Alberto Sandretti (scomparso nel maggio di quest’anno) o di Alberto Morgante, la raccolta Boffa non include opere dell’avanguardia (che all’epoca non era ancora stata «riscoperta»), e nemmeno del cosiddetto «stile severo», che aveva riformulato il linguaggio del realismo socialista nel senso di una rappresentazione spietata e intransigente del vero. Il suo nucleo è costituito dagli artisti che si erano formati alla fine degli anni Cinquanta anche sotto l’influsso della pittura astratta e informale europea, nonché da quei maestri appartati ma di straordinario ascendente che saranno un punto di riferimento essenziale per l’arte del disgelo. Figure di culto come Robert Fal’k, tra i fondatori nel 1910 del gruppo avanguardistico «Fante di quadri» ed esponente del cezannismo russo, e Aleksandr Tyšler che, con la sua grafica sognante, raffinata e intensamente lirica, aveva trasmesso alla generazione degli anni Sessanta – scrive il critico e curatore Viktor Misiano nel suo saggio – «la conferma definitiva del diritto dell’artista a un’immaginazione poetica libera da programmi ideologici».

ANDANDO ancora più a ritroso, i Boffa riscoprirono anche classici dimenticati della pittura russa di primo Novecento, come Pavel Kusnetsov, con i suoi esotici paesaggi asiatici, o quadri degli anni Trenta di Nadežda Udal’cova e Aleksandr Drevin, fortunosamente scampati alle repressioni che avevano colpito i loro autori. La “piccola Russia” della collezione Boffa esclude invece gli esponenti della cosiddetta cerchia di Sretenskij bul’var (Il’ja Kabakov, Vladimir Jankilevskij, Eduard Gorochovskij), prediletti al contrario dal loro amico Antonello Trombadori che già nel 1965 aveva esposto alcuni disegni di Kabakov a L’Aquila, al Castello Spagnolo. Un’ennesima conferma, se necessario, del carattere squisitamente personale delle loro scelte.