Sanremo festival dei fiori e del politically correct pena la scomunica, delle follie e delle iperboli, delle canzonette (tante, troppe) che durano spesso lo spazio di una settimana e poi scivolano via senza lasciar traccia. Sanremo come festival della musica italiana, anche se ormai di riconoscibilmente italiano nei pezzi presentati in gara ben poco resta. Campionamenti, autotune, basi registrate: i loop di Junior Cally, Rancore, Anastasio – pur in un contesto di brani di impatto – seguono pedissequamente una linea metodologica che parte dagli Stati uniti e plana nel Regno Unito: arrangiamenti e armonie che assecondano un codice preciso senza sostanziali modifiche.

I suoni di Ghali, Cally o Rancore sono della stessa scuola di Drake, Travis Scott, Frank Ocean. Un unico flusso globale e un impasto di note e voci che si sovrappongono e stordiscono. Così sembra quasi folle, fuori tempo – o peggio pretestuosa – l’idea che ciclicamente ritorna di garantire per legge alla musica «nostrana» nei palinsesti radiofonici nazionali, una quota di diritto. Operazione che ha trovato sponda da anni in Francia ma con altra applicazione e che qui – la proposta era della Lega – voleva proporre una legge che garantisse almeno una canzone italiana ogni tre passaggi di radio, pena lo spegnimento della frequenza. Ma di cosa stiamo parlando?

UN FESTIVAL di canzoni costruito in realtà – televisivamente parlando – come un moloch che ingloba vari generi e dove la gara è solo uno degli elementi, non il principale: Sanremo talent (la sfida tra i giovani), sanremo reality (la lite Bugo/Morgan non sembra un appendice degli scontri e le baruffe di un qualsiasi Grande fratello?), Sanremo vintage con il suo corollario di vecchie glorie ciclicamente riportate alla luce e subito dopo accantonate. Piace così come è allo stesso tempo detestato: odio e amore. Un festival sganciato dall’attualità e che non viene sfiorato dall’immaginario televisivo moderno, crogiolandosi nella sua immobilità e chiuso in un’elefantiaca liturgia ma che sa agganciarsi furbescamente all’onda social – tanto da intercettare nel 2020 under 15 a suon di hashtag e contatti Twitter e Instagram. Non si è sottratta al rito collettivo nemmeno l’edizione numero 70 griffata Amadeus nata tra le polemiche e chiusa in gloria con ascolti alle stelle e raccolte pubblicitarie monstre che mettono a tacere tutto.

IL CONDUTTORE ha messo in piedi una macchina – sotto questa logica – perfettamente riuscita e riconoscibile. Se il festival di Baglioni era costruito inevitabilmente sulla forte personalità del (sua definizione) «dittatore artistico» (Baglionicantatutto, da solo o con ospiti…), Amadeus gioca una partita collettiva: si ritaglia il ruolo di sparring partner, lascia Fiorello in prima linea inventandosi – qui sta la sua abilità – un progetto perfettamente commestibile ma irrimediabilmente datato. Con una metafora calcistica è come contrapporre il genio solitario di Ronaldo allo spirito collettivo dell’Olanda di Crujff. Un sogno, appunto.

Nella conferenza stampa conclusiva – oltre 9 milioni e mezzo anche per la quarta puntata, share oltre il 53,3%, Amadeus di questo sogno ha parlato: «È stata una settimana indimenticabile. Ho detto alla prima conferenza che era un sogno che si realizzava, il sogno era non solo di condurre il festival, ma di portare al festival quello che sognavo, ed è accaduto». «Il dato che mi rende particolarmente felice – aggiunge – è quello dei giovani, avere tra le ragazze l’81% di share è qualcosa di clamoroso. L’abbraccio che ho avuto con Marco Sentieri e Leo Gassmann è stato bellissimo».

SANREMO del «volemose bene», Festival che si autocelebra anche con una serie di eventi che coinvolgono la città, perfino una mostra ospitata nelle sale di Forte Santa Tecla, dove vengono raccontati i 70 anni del festival. Dalla radio alla televisione, dal bianco e nero alla tv a colori, dal Casinò all’Ariston. Suddivisa in 7 tappe cronologiche illustra in 7 panel tematici i record, i vincitori, gli ospiti e le canzoni celebri usciti dalle varie edizioni. La sezione più curiosa è quella dedicata ai costumi, dove trova spazio l’abito rosso che Dalida avrebbe dovuto indossare durante l’edizione del 1967, ma la morte di Tenco cancellò tutto, insieme a quelli di Iva Zanicchi, Mia Martini, Gigliola Cinguetti.
Sul palco nella finale con Amadeus Francesca Sofia Novello, Sabrina Salerno, Diletta Leotta e Mara Venier. Tra gli ospiti Biagio Antonacci, Gente De Zona e il tenore Vittorio Grigolo.