A Washington Zalmay Khalilzad, artefice dell’accordo tra Talebani e Usa, si dimette. A Mosca i governi della regione incontrano i Talebani. All’hotel Intercontinental di Kabul il ministro dell’Interno, Sirajuddin Haqqani, celebra i martiri e gli attentatori suicidi. A poco più di due mesi dalla presa del potere dei Talebani, gli attori regionali fanno il punto a Mosca, dove oggi si tiene un vertice con i rappresentanti di dieci Paesi, tra cui Russia, Cina, Pakistan, Iran e India, principali attori regionali.

ASSENTI, «PER MOTIVI logistici», gli Usa, che pure avevano partecipato ai precedenti incontri a Mosca. Inaugurato nel 2017, il formato non è nuovo. Nuovo è il contesto: dall’ultimo incontro a Mosca della cosiddetta Troika plus (Russia, Usa, Cina e Pakistan), il 19 marzo 2021, è uscito un comunicato congiunto in cui si sosteneva il no all’offensiva militare talebana di primavera e alla restaurazione dell’Emirato islamico d’Afghanistan. E il sì alla riduzione della violenza e alla risoluzione politica del conflitto. Tempi diversi: il presidente Usa Joe Biden doveva ancora confermare l’accordo tra Stati Uniti e Talebani firmato a Doha nel febbraio precedente. E gli attori regionali insistevano per accelerare il processo negoziale che avrebbe dovuto condurre alla fine della guerra.

DI QUELL’INCONTRO, a cui parteciparono anche i Talebani, rimane una foto significativa: mullah Baradar e Zalmay Khalilzad, rappresentante speciale degli Usa, scherzano tenendosi il braccio, seduti uno accanto all’altro. Oggi Baradar è il vice del capo di governo talebano, mullah Hassan Akhund. Khalilzad invece – lunga carriera alle spalle e dal 2018 inviato speciale per l’Afghanistan, scelto da Trump e confermato da Biden – è senza lavoro. Dimesso, o silurato, a seconda dei punti di vista. A lui molti afghani attribuiscono le responsabilità dell’arrivo al potere dei Talebani. Così la pensano anche a Washington. Khalilzad ha molte colpe. Ma trovare un solo capo espiatorio per il fallimento afghano, che nasce nel 2001 con l’invasione e non nel 2018 o 2020, è troppo facile.

Non è facile neanche capire come trattare oggi il «dossier afghano». Un Paese che rischia il collasso, una gravissima crisi umanitaria in corso, l’economia che – secondo l’ultimo report regionale del Fondo monetario internazionale, reso pubblico ieri – si contrarrà del 30% quest’anno, «spingendo milioni di persone nella povertà».

E AL POTERE I TALEBANI, che hanno disatteso molti degli impegni assunti con gli attori regionali. Secondo fonti governative russe, sono due i temi principali del vertice di Mosca: la necessità di formare un governo davvero inclusivo e quella di evitare una crisi umanitaria attraverso una risposta globale. Oltre alle preoccupazioni sul fronte militare e del terrorismo. Già ieri il ministro degli esteri russo, Sergey Lavrov, è stato chiaro: Russia, Cina e Pakistan sono disposti ad aiutare l’Afghanistan (per ora nessuna cifra precisa), ma Mosca non ha intenzione di riconoscere il governo dei Talebani. E si aspetta anzi che i turbanti neri diano seguito alle promesse fatte prima di conquistare Kabul. «Riconoscimento? Non se ne parla, per ora».

AL VERTICE di Mosca non partecipano gli Stati Uniti, pur lodando l’iniziativa e dicendosi pronti a collaborare in futuro. Dietro ai «motivi logistici» c’è altro. Conta il recente annuncio da parte di Mosca che entro dieci giorni terminerà la missione diplomatica nella sede della Nato a Bruxelles, dopo che diversi funzionari russi ne erano stati allontanati con l’accusa di essere spie. E conta la diversità di vedute sull’Afghanistan: il presidente Putin non ha partecipato al G20 straordinario sull’Afghanistan che si è tenuto il 12 ottobre sotto la presidenza italiana. Mosca teme l’instabilità afghana, l’eventuale «contagio» dell’islamismo armato nelle ex repubbliche sovietiche, che considera una sorta di cintura di sicurezza esterna. E ritiene che Washington debba assumersi gli oneri finanziari del disastro afghano.

A Kabul intanto Sirajuddin Haqqani, sulla testa una taglia dell’Fbi da 10 milioni di dollari, ha celebrato i martiri all’hotel Intercontinental, distribuendo abbracci, e mazzette di denaro, ai famigliari degli attentatori suicidi: «sono eroi» ha detto il nuovo ministro degli Interni.